venerdì 27 febbraio 2009

"Non sono così pessimista coi giovani e i valori..."

Scrive Rita
Questa è una mia riflessione e anche una richiesta di consiglio: Io non sono così pessimista riguardo i giovani e i valori. Altrimenti vorrebbe dire che tutto il nostro lavoro quotidiano è inutile? Secondo me rimane sempre molto importante l'esempio che noi diamo, non mi illudo che tutto quello che insegniamo arrivi a destinazione e soprattutto sia giusto ma almeno un 50% (è forse chiedere troppo ?) Noi siamo cresciuti con degli insegnamenti e tutto sommato non siamo venuti su' male, forse i nostri figli sono ancora piccoli per vedere i risultati ma perchè mollare da subito! Forse tu come genitore e insegnante puoi darci qualche consiglio!
Saluti Rita
Risponde maestrocastello
Come la penso sui giovani? Se ho dedicato tutta una vita proprio ai giovani, non posso che stare dalla loro parte! Sono la nostra speranza , il nostro investimento morale e la nostra ragione di vita. Naturalmente dobbiamo fare i conti con quanti interferiscono col nostro lavoro di genitori ed insegnanti. La società è in continuo fermento ed ha un passo più veloce del nostro. Non sai quanta fatica ho dovuto fare nel mio lavoro di maestro con genitori che non realizzavano che si doveva remare insieme per il bene del figlio. Far capire che delegare tutto ai nonni, non andava bene; delegare tutto alla scuola, non andava bene; lasciare un minore troppo tempo davanti alla televisione, non andava bene; fare troppi regali, non andava bene e…… potrei continuare. Il bambino non è né buono, né cattivo; è il frutto della società in cui vive. Quanti genitori hanno l’abitudine di parlare coi figli? Quanti, oltre che portarli dal McDonald’s, li portano anche a visitare un museo, una città d’arte? Quanti, invece del solito giocattolo, pensano ogni tanto a donare anche un libro? La società è un po’ come Internet, ci trovi di tutto, dagli argomenti di cultura al materiale pedo-pornografico; basta saper navigare! La ricerca, ovviamente, va guidata. Il compito della famiglia è appunto quello di guidare i figli, direttamente ed indirettamente. A volte, anche i silenzi sono molto eloquenti. I figli non vogliono che tu interferisca, ma amano sentirti alle spalle. Mio padre muratore non era quasi mai in casa, ma mi è rimasto l'esempio della sua semplicità, rettitudine e bontà d'animo. Non devi caricare i figli di troppe responsabilità, non devi avere troppe aspettative, devi far capire loro che sbagliare fa parte della vita e aiuta a crescere, devi incoraggiarli spesso anche con un semplice sorriso. Non devi mettergli in testa le tue stesse idee, ma permettere che costruiscano le proprie con l’onestà di pensiero ed il rispetto per gli altri. Se non li abbiamo seguiti da piccoli, non ci lamentiamo poi se il nostro ruolo viene esercitato dall’ amico, dal bar, dalla strada, dal cattivo politico o, peggio ancora, dal mondo delle immagini. Fare il genitore è un compito arduo, sono d’accordo con te; ma è una scommessa che vale la pena giocare. Intanto trovo già molto positivo che un genitore come te si ponga delle domande e conoscendoti personalmente, sono certo che stai facendo un ottimo lavoro.
Salutissimi maestrocastello

mercoledì 25 febbraio 2009

16 luglio. Tempo di letture.





Tempo di mare, tempo di letture. Da qualche anno la biblioteca di Budoni ci rifornisce di libri che, personalmente, consumo a decine in pochissimo tempo, mentre son disteso a migliorare la tintarella. Così, oltre al corpo, tengo allenata anche la mia fantasia. Colgo questa preziosa occasione di recuperare letture che avevo negligentemente tralasciato durante tutto un anno di continua rincorsa contro il tempo e che mi ha visto puntualmente soccombere.
I romanzi sono i miei preferiti e più di qualche volta vengo rapito dalla bravura di qualche giovane scrittore e penso immancabilmente: un giorno sarò anch’io all’altezza di scrivere qualcosa? Annoto passi che mi sembrano particolarmente interessanti, vado letteralmente a caccia di metafore che mi sappiano affascinare per la freschezza e la fantasia di immagini che sanno generare. Leggere , per me, è un modo di evadere, di lanciarmi in una storia coi suoi labirinti; di vivere passioni pennellate in paginette di trentacinque righe al massimo. E’ divertente entrare in sintonia con qualche personaggio della storia, non necessariamente il più avvincente, e..... una volta che lo hai individuato; tuffarti nel tumulto delle sue passioni e seguirlo fino in fondo, cercando di prevedere la sua futura mossa che intanto è divenuta anche la tua! Più che le azioni, mi affascinano i sentimenti, i pensieri che passano nella testa delle persone, la visione di quanto li circonda e come gli altri personaggi gli si muovono intorno, come davanti ad un burattinaio. Insomma mi piace farmi condurre per mano da un tipo tenebroso, ben nascosto tra le righe.
Nella lettura si esalta veramente tutta la mia fantasia che perde i veli del quotidiano e trova casa e ristoro ristoro finalmente.
Se avete voglia di viaggiare senza prendere alcun treno, fate come me : leggete un libro!

Da "Chiuso per ferie" di G.Castello (1996).

Inverno.

E CADDE LA NEVE
COME UN MANTO LIEVE
DAL CIELO SEMBRO’ CADERE
IL GELO.

GLI ALBERI SPOGLI
SONO SCHELETRI INSECCHITI
E COL TEMPO SI SGRETOLANO.

FA MOLTO FREDDO
LA GENTE SE NE VA
E NON RIMANE PIU’ NIENTE.

LA TERRA E’ DURA
E DI COLORE E’ SCURA.
QUESTO SILENZIO METTE UN PO’ PAURA.

LA LUNA SI STA PER ALZARE
MENTRE LE NUVOLE L’ACCOMPAGNANO
CON UN TEMPORALE.

Federica Lattavo (quinta elementare)



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Propongo questa poesia che trovo, a dir poco, deliziosa della mia alunna Federica di appena undici anni. Oltre ad una freschezza ed originalità di immagini, trovo in essa la musicalità propria della poesia, i tempi giusti che accompagnano le sensazioni legate all'arrivo di questa stagione particolare. Il linguaggio poetico dipinge un tutt'uno di parole e sensazioni : "alberi spogli come scheletri insecchiti" o "la terra dura, di colore scura". Il concetto di freddo collegato strettamente a quello di solitudine. La poesia è davvero il linguaggio dei cuori semplici che ha in sè qualità musicali ed evocative e ti sa trasmettere le emozioni proprie dell'opera d'arte. Brava Federica!

lunedì 23 febbraio 2009

Che maestro sono stato?..........(parte prima)

Le punizioni corporali.
Parlare di punizioni corporali nelle istituzioni scolastiche, oggi, ci fa sorridere e la mente va alle illustrazioni dei libri di storia, al tempo dei Romani, che raffiguravano un allievo con i glutei scoperti che veniva frustato dal suo precettore. Chi, come me, ha frequentato le elementari negli anni cinquanta, ricorderà certamente che alcune pratiche punitive erano piuttosto diffuse nelle scuole primarie del nostro paese. Le classi, allora molto numerose, erano tutte maschili o femminili e certe scuole avevano entrate distinte per uomini e per donne; proprio come si fa per i servizi igienici. Ogni anno mi toccava un nuovo maestro, sempre uomo e sempre più severo del precedente. In seconda ne avevo uno con un occhio di vetro che provava gusto nel punirci e me ne accorgevo da come gli brillava l’occhio buono! In terza ne ebbi un altro che, durante i compiti in classe, camminava continuamente tra i banchi per sorvegliarci e quando era in prossimità della mia postazione, io smettevo addirittura di respirare e mi riprendevo solo a pericolo scampato. Vi chiederete perché avessi una tale paura? E’ presto detto. Se quel maestro si accorgeva di un errore ortografico o di un calcolo sbagliato, aveva l’abitudine di far partire sonori ceffoni all’indirizzo del malcapitato. Allora si menava?!?! Eccome! Ecco un elenco delle punizioni maggiormente in voga nelle classi maschili di allora: Se ti andava bene, ti mandavano dietro la lavagna, con la testa rivolta verso il muro; se ti andava male, ti mettevano le “orecchie d’asino”: due imbuti di carta che si applicavano sulle orecchie e ti facevano girare per le classi, come esempio negativo da non seguire; mentre tutti ridevano di te. Un ulteriore esempio di umiliazione era l’abitudine di far accomodare l’ultimo della classe nel “ciuccio banco”, ovvero, “ il banco degli asini”, un banco che veniva sistemato in fondo all’aula e comunque isolato da tutti gli altri. Altro metodo punitivo era di far inginocchiare il malcapitato su uno strato di ceci o fagioli secchi. Poi c’era l’abitudine delle “bacchettate” sulle palme o, peggio ancora, sul dorso delle mani con verghe di salice, fornite spesso dagli stessi alunni. Punizione più indolore era il ricopiare decine di volte una stessa pagina di quaderno. La famiglia era sempre solidale con la scuola e spesso incitava il maestro all’uso delle maniere forti, cosicché l’alunno non aveva vie di scampo. Mi sono sempre chiesto se avessero un effetto positivo su comportamento e rendimento scolastico degli allievi quei metodi così duramente punitivi o non accendessero piuttosto sentimenti di avversione per la scuola e se una relazione di forte autorità non ci escludesse invece la possibilità di avvicinarci positivamente al sapere, come sostiene Houssaye. In anni in cui solo i più fortunati finivano le elementari, non ci si poneva troppe domande. Ci pensate a come è cambiato ed addirittura capovolto il rapporto fra insegnanti ed allievi dopo appena mezzo secolo? Oggi ci troviamo a combattere fenomeni dilaganti di bullismo scolastico, quotidianamente ripresi su telefonini e sbattuti, come trofei, sul web! Una volta le nerbate del maestro erano solo l’acconto del resto che avresti ricevuto poi a casa. Oggi un insegnante si deve guardare bene dal riprenderti, perché potrebbe correre il rischio di essere da te schiaffeggiato o, peggio ancora, accoltellato. Decennio che vai, usanze che trovi!

domenica 22 febbraio 2009

Blog come giornalini di classe

Mai avrei pensato che dall’atteggiamento di rifiuto e di sospetto che avevo per il computer alcuni lustri addietro, potessi poi passare ad un uso quotidiano dello stesso. La pubblica amministrazione si sa che ha faticato parecchio prima di riporre le vecchie macchine da scrivere in soffitta ed accettare inizialmente il computer anche solamente come semplice telescrivente; onde scoprire poi le molteplici funzionalità di questo moderno strumento di lavoro, di cui oggi non potrebbe più fare a meno. Da alcuni mesi anche io, come tanti, ho creato un mio blog dove poter esprimere e condividere pensieri che prima erano solo miei e ciò, credetemi, mi gratifica davvero tanto. Mi sembra come di aver realizzato il mio sogno di sempre e cioè raccontarmi e raccontare il mio modo di interpretare il mondo. Mentre mettevo in cantiere questo diario telematico, lo andavo paragonando al giornalino di classe che spesso ho realizzato con gli alunni, in tanti anni di lavoro alle elementari ed ho vissuto lo stesso entusiasmo dei miei piccoli allievi. Ricordo ancora il giornalino che realizzai nel 1975/76 con una quinta classe di ben 36 elementi, tutti maschietti (all’epoca erano poco diffuse le classi miste) e non scordo quanto quell’idea riuscì a coinvolgere i miei ragazzi. Formammo un vero e proprio comitato di redazione e ci furono incarichi per ciascun alunno. Tutti si impegnarono a scrivere articoli di ogni genere e siccome il giornale sarebbe stato poi letto dalle classi femminili della scuola, la nostra sezione era divenuta un laboratorio di continua rilettura e correzione degli elaborati. Morale: in pochi mesi quella classe, prima carente, migliorò tanto dal punto di vista ortografico e nella originalità delle idee che esponeva nelle composizioni scritte in quel giornalino scolastico dal titolo “Punto e a capo”. Molti scrivevano poi nei temi che avrebbero voluto fare, da grandi, il giornalista. Bella soddisfazione, no?

martedì 17 febbraio 2009

Caro "Vecchio scarpone" !

Il festival sanremese compie ormai 59 anni, da quando, nel lontano 29 gennaio 1951, Nunzio Filogamo presentò la prima edizione nel Salone delle Feste del Casinò di San Remo. L’organizzazione della manifestazione ed il suo svolgimento non avevano nulla a che fare con la pompa degli anni successivi. I cantanti erano 3 in tutto (Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano) ed interpretavano 20 canzoni; essi si esibirono sul palco, mentre il pubblico era sistemato su tavolini tra i quali giravano i camerieri occupati a portare le consumazioni. Vinse Nilla Pizzi con “Grazie dei fior” e non trasmetteva ancora la televisione, ma solo il secondo programma della radio. Quelle degli anni cinquanta erano canzonette dal testo semplice, fatte per essere fischiettate e cantate da tutti, in anni in cui c’era davvero bisogno di momenti di spensieratezza. Infatti furono presentate canzoni come “Vola colomba”, “Papaveri e papere”, “Canzone da due soldi”, “Casetta in Canada”, “Vecchio scarpone” e la gente era contenta di tanto. Le serate del festival destavano un grande interesse e radunavano gente nelle case dei fortunati che avevano la televisione, nei circoli, nei bar. Ricordo che si arrivava molto tempo prima al bar per prendere posto e si ordinava una sola consumazione che dava diritto a più persone ad assistere alla trasmissione. Si formavano i vari partiti: quelli che erano per Claudio Villa e quelli per Domenico Modugno e ci scappava spesso l’applauso. A noi ragazzi di quegli anni ci prendeva così tanto che la settimana prima del festival compravamo in edicola il libricino coi testi delle canzoni, li imparavamo a memoria e ci inventavamo pure la musica dei brani che dovevamo ancora ascoltare. Qualche volta sono stato costretto a seguire il festival solo per radio e mi sono accorto di apprezzare meglio un brano musicale, stando quasi al buio; illuminato soltanto dall’occhio verde dell’apparecchio radio che avevo in casa. Poi ne è passato di tempo e questa competizione ha perso il fascino antico. Ora si impongono le immagini, si creano le aspettative con l’ospite d’onore, il direttore artistico, il conduttore, la bionda e la mora, il dopo-festival, i testi impegnati, il look, lo scoop che dovrà riempire le pagine dei giornali e far parlare nei giorni seguenti alla televisione. E le canzoni? Dopo un anno nessuno più si ricorda. Oggi per suscitare l’interesse alla gara, si fanno polemiche su testi come ”Luca era gay” e “Ti voglio senza amore” o, peggio ancora, sul compenso milionario del conduttore; mentre una volta bastava un “ Vecchio scarpone” per infiammare il cuore di gente sempliciotta come me che l’indomani già mi ritrovavo per la strada a canticchiare :
Vecchio scarpone
quanto tempo è passato
quante illusioni fai rivivere tu
quante canzoni
sul tuo passo ho cantato
che non scordo più!

lunedì 16 febbraio 2009

Facciamo la conta!

Il gioco è sicuramente l’espressione più autentica e spontanea dell’infanzia, è un elemento fondamentale e insostituibile nella crescita della persona. Nel gioco, infatti, essa non solo scopre le proprie attitudini, esercita la fantasia, la manualità e sviluppa la sua relazione con gli altri. Il gioco non è da considerarsi una semplice forma di divertimento, ma un momento importante di crescita, una sorta di "primo lavoro" che mette alla prova le capacità di intuizione, di logica, di coordinazione motoria e di socializzazione; qualità e abilità fondamentali nello sviluppo dell'individuo.
Chi fa parte del mondo della scuola sa bene quanto sia importante la fase dell’osservazione proprio durante il gioco del gruppo classe, per conoscere più a fondo i propri ragazzi e studiare le strategie di intervento sia sul singolo che sul gruppo. Osservando i miei ragazzi ho pensato spesso a com’è cambiato il modo di giocare del bambino che ero io negli anni sessanta, dai ragazzi di oggi e ciò dipende certamente dallo stile diverso della società di riferimento.
Oggi il gioco è vissuto dai bambini e dai ragazzi come un'attività prevalentemente individuale, che si svolge al chiuso della propria cameretta, intenti a superare infiniti livelli di un videogioco della Play Station o a "gareggiare" con il computer. Naturalmente questo comporta un esito negativo sullo sviluppo della personalità perché l'individualismo esecutivo prevale sulla dimensione socializzante e socio-centrica del gioco. Così, talvolta accade che anche nei giochi con gli altri, non ci sia affiatamento nella squadra perché manca il vero senso di "gruppo".
In molti paesi del mondo, i bambini non possono comperare dei giochi perchè costano troppo, quindi se li costruiscono. Anche in Italia, fino agli anni '60, giochi fatti con materiale povero erano molto diffusi. Poi, con il rapido aumento del benessere, i bambini hanno potuto comprare giochi, preconfezionati, nei negozi. Nel frattempo, le strade sono diventate sempre meno sicure e, anche a causa dell'aumento del traffico, i bambini non giocano più nella strada. Tutto questo ha portato alla scomparsa dei giochi di una volta. Infatti, i bambini di adesso non li conoscono più.Una volta, invece, noi ragazzi, quando non eravamo impegnati a scuola o nel lavoro in campagna, giocavamo liberi nei campi o nelle strade con oggetti semplici che si potevano reperire facilmente nell'ambiente in cui vivevamo. Quelle rare volte che mi capita di ritornare nelle stradine della fanciullezza e nella piazzetta “Chiancato” del mio pesino di montagna, mi sembra quasi di risentire il vociare dei coetanei quando facevamo “il nascondino collettivo”, di come ero felice quando costruivamo carrozze con una tavola e semplici cuscinetti o giocavamo col pallone farcito di pezze e ricucito sempre in modo grossolano. Il mio preferito era il gioco della “lippa” che consisteva nel battere con un bastone (mazza) un pezzo di legno più corto, a due punte. Mi appassionavano anche il gioco dei “sassi”, delle “biglie”, delle “figurine”, dei “semi” di zucca o di cachi, dei “bottoni”; oppure “il battimuro”con monete o figurine. Raramente giocavo al tiro con l’arco (pericoloso), fatto con ferri di ombrello appuntiti; più spesso mi dedicavo allo scupidù, alla fionda, alla cerbottana o al cerchio condotto da un sottile tondino di ferro. Mi coinvolgeva maggiormente giocare “a cavalletto”, mi divertiva tantissimo anche da semplice spettatore vedere ragazzi piegati a novanta gradi, appoggiati al muro ed altri cavalcarli in successione e cercare di restare in equilibrio, pena la perdita del gioco e finiva quasi sempre con un ruzzolone generale. Il ricordo legato a quei tempi e quei giochi è di uno stato di spensieratezza totale, la soddisfazione di riuscire a vincere gli ostacoli che permettevano di trasformare sensazioni ordinarie in sensazioni piacevoli e gratificanti. Quel cortile è stata un' ottima palestra di vita per tutti quelli che l’hanno frequentato.

venerdì 13 febbraio 2009

Spiagge

Eravamo avvezzi alle spiagge dell’Adriatico basse e sabbiose, generose di mucillagine e di forte odore di iodio o a quelle del litorale romano, sempre stipate di bagnanti, sotto ombrelloni che fungevano da vere e proprie trattorie all’aperto; il mare era solo un pretesto al banchettare!
Il mare l’avrei visto per la prima volta ad otto anni e mi dicevano quelli che ci erano stati prima che ricordava un campo di grano, tutto verde, mosso ripetutamente dal vento. Allora non era in voga la moda del mare come adesso. Chi ci andava, lo faceva perché consigliato dal medico di famiglia, magari per cure ricostituenti. Quando è scoppiata la febbre metropolitana della gita al mare, si andava come ad una scampagnata! C’era chi partiva in carovana con automobili stracolme di bagagli , ombrelloni, fagotti, sediole e indossavano tutti dei cappelli calcati rigorosamente sulla testa per il terrore di scottarsi. Dopo che veniva aperto l’ombrellone, quasi sempre di gigantesche dimensioni, vedevi assieparsi al suo interno i componenti di intere famiglie sempre numerose e con nonni al seguito. Le mamme si prodigavano nel servire panini generosi che facevano da stuzzichini, in attesa del pranzo vero e proprio. Elemento che non poteva mai mancare era l’anguria di grandezza esagerata che veniva affidata ad un componente della famiglia che doveva averne cura e tenerla in fresco in un secchio o in una buca fatta sulla riva del mare. I bagnanti, si fa per dire, erano o troppo magri o troppo grassi; vedevi un assortimento di pance straripanti, portate con vanto. Questi omoni simili a pachidermi si avvicinavano sospettosi al mare ed al massimo si bagnavano le estremità, facendo mille smorfie; tanto era raro vedere qualcuno che sapesse realmente nuotare. Eppoi, con l’assiduo rapporto che questi tipi avevano col cibo, l’ultimo loro pensiero era quello di rinunciare al mangiare per tenersi idonei al bagno; erano praticamente nello stato di digestione permanente.
Al momento di pranzare venivano aperti i fagotti e saltavano fuori pietanze per un pranzo da paura : pasta al sugo, involtini, parmigiana, carciofi alla giudìa, dolce fatto in casa, acqua idrolitina e per finire fettoni di anguria fresca per tutti. Noi ragazzi del popolino raggiungevamo il litorale coi mezzi pubblici, affrontando estenuanti viaggi su di uno squallido trenino dai sedili di legno, il famoso trenino di Ostia; senza altro denaro in tasca che quello asciutto asciutto per l'andata e ritorno. Partivamo con progetti di chissà quali conquiste e tornavamo a casa solo con fastidiose scottature; le creme con la protezione multipla le avrebbero inventate un po' di anni dopo. Sono arrivati poi gli anni delle ferie in Sardegna che ci hanno portato a vivere un diverso rapporto con il mare. Davanti a squarci di paesaggi favolosi pensavi di immagazzinare nella mente più particolari che potevi, per saperli poi riferire : tutte le sfumature del blu di cielo e mare, il colore troppo bianco o troppo rosa della sabbia, i sassi modellati a sembianze umane o l’atmosfera di pacatezza dell’ambiente che t’inorgogliva il cuore. Scoprire sempre nuovi angoli di paradiso è stato il nostro hobby in quegli anni di vacanze isolane : Budoni, Ottiolu, Coda Cavallo, Berchida, Capo Comino, Cala Liberotto, Cala Luna, Brandinchi, Tavolara e si potrebbe andare all’infinito. Il ricordo più magico messo in valigia è stato certamente l’atmosfera di spiagge esilaranti come Berchida, dal tragitto aspro e selvaggio che ti calavano in una dimensione di estasi, dove percorrere la lunga riva di mare era un invito al meditare e se incontravi un uomo tutto nudo, seduto sulla riva a farsi lambire dalle onde, come in meditazione, per te rientrava nella norma; tanto ricorda un eremo quel posto. Tante spiagge sono come tante donne, tutte diverse e dal fascino che ti conquista per una diversa particolarità che le caratterizza e finiscono con l’entrarti nel sangue.

mercoledì 11 febbraio 2009

COMMIATO...........da Eluana.




GIOVANE FIORE FERITO DAL VENTO
SOFFIO DI VITA PIU’ TENACE DELLA VITA
ALITO DI SPERANZA INSEGUITA VANAMENTE

TESTIMONE INERME DEL DOLORE DI UN UOMO
FERMENTO DELLE NOSTRE COSCIENZE
CONVINTE SU QUANTO FOSSE GIUSTO PER TE

HAI TOLTO IL DISTURBO IN PUNTA DI PIEDI
IN UNA SERA GELIDA DI VUOTO E DI PIANTO
TRA TANTO VOCIARE ASSORDANTE

TU CI LASCI AMPI MARGINI DI RIPENSAMENTO
COL RICORDO DI UN CANDIDO SORRISO E
NOI....
TI DOVREMMO ALMENO QUALCHE ATTIMO DI SILENZIO.
(giovanni castello )

lunedì 9 febbraio 2009

Chi ha il diritto di vita e di morte?

I fatti
Il Consiglio dei Ministri ha varato all'unanimità un decreto che ordina di proseguire l'alimentazione fino all'approvazione di una legge sul testamento biologico. Berlusconi: "Non voglio la responsabilità della morte di Eluana". Napolitano non firmerà il decreto: "Un provvedimento d'urgenza non si può varare in contrasto con sentenze passate in giudicato". Ma Berlusconi replica duro: "Il presidente della Repubblica firmi o cambieremo la Costituzione sui decreti d'urgenza. Convocherò il Parlamento per approvare entro tre giorni una legge che contenga la norma sull'idratazione e l'alimentazione prevista dal decreto". Il Vaticano: "Il governo ci ha ascoltato". Lunedì la legge sarà al Senato
Art. 77. della Costituzione Italaiana
Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
Confusioni fra morte clinica e morte cerebrale
La morte clinica corrisponde all'assenza di alcuni segni vitali (ad es. battito cardiaco), ed è reversibile (con una dose non piccola di fortuna), la morte cerebrale corrisponde alla morte effettiva dell'organo cervello, diagnosticata in modo adeguato, e NON è reversibile. In parole povere, il "coma reversibile", è lo stato di incoscienza dovuto a danni cerebrali che possono guarire. Si parla invece di "coma irreversibile" quando si ritiene che le lesioni che provocano l'incoscienza siano così gravi da non poter essere recuperate. Questo non ha nulla a che vedere con la morte, poiché, pur essendo venuta meno definitivamente la coscienza, le funzioni vitali del cervello rimangono e i pazienti in tali condizioni possono sopravvivere talvolta anche per parecchi anni. Inoltre quello di "coma irreversibile" è un giudizio clinico, e come tale non infallibile: può accadere, anche se raramente, che un coma ritenuto irreversibile venga in realtà recuperato. È su casi di questo tipo che si scatenano di solito i titoloni dei giornali e le celentanate. Ma quando si parla di morte cerebrale" vuol dire che sono cessate tutte le funzioni cliniche dell'intero cervello, cioè non solo la coscienza, come nei due casi precedenti, ma anche le funzioni vitali della respirazione e della circolazione sanguigna, e le funzioni integrative. In questo caso, a differenza di prima, sia il tronco cerebrale sia la corteccia sono morti: anche se una piccola parte dell'attività cerebrale si può mantenere (i riflessi spinali), tutta la struttura che governa il funzionamento dell'organismo. I criteri essenziali per la diagnosi di morte cerebrale sono: 1) Stato di incoscienza 2) Assenza delle funzioni del tronco cerebrale 3) Apnea 4) I riflessi spinali possono essere presenti. Bisogna ridimensionare la leggenda metropolitana sul paziente in coma irreversibile da anni che, grazie all'inarrendevolezza di una voce cara e ad assidue carezze, finalmente si sveglia e si alza dal letto sano e salvo. Come una specie di Lazzaro o di bella addormentata nel bosco. Purtroppo dal coma irreversibile non ci si risveglia (non sarebbe irreversibile!). E anche quando il coma è reversibile uscire indenne da tale condizione è conquista non da poco.
Beppino Englaro
Il padre di Eluana rivela di aver scritto, nel 2004, una lettera alle istituzioni, in cui chiedeva di trovare "gli atti opportuni per dare uno sbocco alla vicenda di nostra figlia Eluana che da 4.430 giorni è costretta da istituzioni e medici a una non vita". "Ma non ebbi risposta", dice il padre di Eluana, "e dal momento che la politica non fece nulla e nemmeno il governo, mi rivolsi ai giudici. Chiesi loro aiuto ed essi fecero il loro dovere” In un'intervista sulla prima pagina del quotidiano spagnolo El Pais il padre di Eluana dice di "sentire un grande rispetto verso la Chiesa, e spero lo stesso per me da parte della Chiesa. Spero che sappiano quello che dicono e che fanno, ma non polemizzo con loro": ma, aggiunge Englaro, "il magistero della Chiesa è morale, lo Stato è laico e in esso convivono anche i cattolici. La chiesa non può impormi i suoi valori. Quello che dice la Chiesa riguarda solo loro, non noi che non professiamo questa confessione".
Berlusconi su Eluana:
Eluana è una persona «che potrebbe anche in ipotesi generare un figlio e che è in uno stato vegetativo che potrebbe variare come diverse volte si è visto».
"Sembra ci si voglia togliere la scomodità”
“Non voglio essere responsabile della morte di Eluana”
"ci sono due culture che si confrontano: da un lato la cultura della liberta' e della vita e dall'altro quella dello statalismo e, in questo caso, della morte; noi siamo per la vita e per la liberta' ".
"Il presidente della Repubblica firmi o cambieremo la Costituzione sui decreti d'urgenza.

Napolitano
«Il sentimento di vicinanza e di partecipazione nei confronti delle persone che lottano contro la malattia - dice - e anche per le persone che giungono alle soglie estreme della vita è forte in ciascuno di noi e non è monopolio di nessuno.”
Alcune riflessioni
Se mi trovassi nelle condizioni di Eluana preferirei morire definitivamente.
Quello che mi disturba in questa vicenda è l'ipocrisia che la circonda.
Personalmente non me la sentirei di staccare la spina a mia figlia; ma non mi sento di giudicare chi non la pensa come me, né di imporre le mie convinzioni. Nessuno ha il diritto di intervenire; è talmente facile parlare quando non sei coinvolto in prima persona.

Alcune domande
Che senso ha decidere se farla morire in un giorno o in 15 giorni gradualmente? Se è per evitarle il dolore, allora è viva? Come mai tutti sanno quello che è giusto, quando non li riguarda personalmente? Trovate giusto questo braccio di ferro tra poteri diversi dello Stato? Non aveva avuto tutto il tempo questo governo per intervenire prima? Non sarebbe più giusto che tutti facessero un passo indietro e lasciassero rispettosamente la famiglia Englaro libera da ogni intrusione di politici, ecclesistici, mass-media, e da quei personaggi davanti all'ambulanza che vogliono "la vita a tutti i costi"...... però quando si tratta della vita altrui? Trovate giusta la scritta “ Peppino Boia! ” dei fanatici della vita contro Beppino Englaro o ancora peggio: “io toglierei l’acqua e il cibo al padre di Eluana” della Mussolini in televisione?
Se avessimo tutti un po’ più di buon senso e di rispetto per le opinioni altrui, forse si vivrebbe meglio. Non ho simpatia per chi non ha rispetto per l'essere umano e le opinioni altrui, non ho simpatia per una istituzine decadente che vuole l'ultima parola sulla vita e la morte delle persone; ma sono sicuro che quell'uomo, il padre, è l'unico che ama Eluana senza confini e sua dovrebbe essere l'unica volontà.

mercoledì 4 febbraio 2009

La cura dei limoni !

La cosa ebbe inizio allorchè un conoscente ebbe a darmi una ricetta indiana per disintossicare il fegato. La ricetta consisteva nel bere succo di limone ogni giorno, iniziando con mezzo limone e seguitando con l’aumentare sempre di altro mezzo ogni giorno; fino ad arrivare al numero di sette (tutti in una sola giornata!) e poi si torna indietro. Morale della favola: la cura dura 24 giorni, per un totale di 98 limoni da tracannare!
Un luglio che mi trovavo, per l’appunto, in terra di Sardegna, decisi di intraprendere questa avventura dei limoni e passai alle vie di fatto: feci una notevole scorta di limoni sardi e iniziò così il cerimoniale che provocò le ilarità dei miei parenti che non si capacitavano come facessi a mandar giù quel beverone aspro che aumentava spaventosamente ogni giorno; fino a raggiungere quota due bicchieroni due, colmi fino all’impossibile. Al mattino era una sceneggiata : io a fingere indifferenza e gli altri che manifestavano una meraviglia esagerata, per fiaccare la mia resistenza.
Si ingaggiò fra noi una tacita gara che mi stimolava a seguitare con maggiore zelo, per dimostrare a me stesso che avevo carattere da vendere.
Quando ne parlavo in giro, tutti poi mi chiedevano :
- T’ha poi fatto bene quella cura ?
Questo , onestamente, non l’ho mai saputo né durante né dopo. Sarà valsa la pena di affrontare tutto quel cinematografo?
Mi è rimasto francamente il dubbio.
Si sa che il limone un po’ restringe: provate a pensare alle mie quantità! Comunque avevo adottato alcuni accorgimenti che favorivano la continuazione della cura. Bastava tenersi in movimento, preparando il momento finale della digestione; insomma, l’atto liberatorio corporale!
Tutto si svolgeva praticamente secondo un cerimoniale giornaliero fisso: dopo il caffè di fine-pranzo, inforcavo gli occhiali da sole e dopo aver indossato un cappelletto m’incamminavo per stradine del borgo marinaro esageratamente assolate, tenendo fra le mani qualcosa da leggere; tanto per darmi un contegno agli occhi della gente.
Prima procedevo a passo lento e cadenzato, aspettando un gorgoglio corporale come preludio necessario alla buona riuscita dell’operazione; poi quando avvertivo segnali più decisi che giungevano sempre repentini, chiudevo immediatamente il libro ed affrettavo moderatamente il passo per guadagnare tempo ed abbreviare così la distanza che separa un peccatore dal suo confessionale.
La breve corsa iniziale sfociava, quasi sempre, in autentico fugone, nella speranza di trovar libero l’unico servizio di cui disponeva la nostra abitazione.
Dico, in quei momenti critici per un uomo, non ti va sempre a capitare qualche stronzo che protrae ulteriormente le tue sofferenze?!
- Niente mare, quest’oggi?
- Ci stiamo andando!
- Non vi si vede mai… se qualche volta….
(Cazzo, questo vuole attaccare bottone! Devo tagliare corto!)
- Scusate sono atteso urgentemente a casa… arrivederci!
Mostravo un cenno rapido di saluto e riprendevo il mio fugone; questa volta irrefrenabile. Una volta giunto a casa, mi accorgevo di aver sudato freddo. E quando ero scevro finalmente di pensieri e tutto il resto, mi veniva immancabilmente di pensare: oggi è andata; chissà domani!Se volete movimentare la vostra estate e provare qualche emozione forte, vi do un consiglio: fate anche voi la cura dei limoni!

"Non era un ragazzo, era un marocchino."

E’ trascorso appena un mese da quando, alla vigilia del nuovo anno, ci siamo scambiati gli auguri di un futuro colmo di cose positive. Ma eccoci invece a fare il bilancio di un primo tratto di questo duemilanove che più negativo non potevamo aspettarci per fatti di guerra, violenze da stupro, atti di xenofobia o giustizia fai da te. Da qualche parte si afferma che il proliferare di mezzi di comunicazione sempre più veloci amplificano fatti di cronaca che sono sempre avvenuti e proprio per la loro maggiore eco ci sembrano di maggiore gravità. Penso comunque che l’aggressione all’indiano di Nettuno da parte di giovanissimi che lo hanno cosparso di benzina, dandogli fuoco sulla panchina di una stazione ferroviaria, sia di una gravità tale che merita perlomeno qualche nostra riflessione di approfondimento. Ci chiediamo come mai giovanissimi di appena sedici anni stiano ancora in giro alle quattro del mattino a farsi di alcool e di droga e pensino bene di concludere la nottata dando fuoco ad un altro essere umano che ha la sola colpa di trovarsi ad un’ora sbagliata nel posto sbagliato? Come mai i loro amici, anche loro giovanissimi, quando vengono intervistati dichiarano candidamente : “...non era un ragazzo, era un marocchino”; come se i marocchini non fossero esseri umani? Come mai la politica, tutta presa in questi giorni nella discussione parlamentare sullo sbarramento al 4%, non stia valutando nel modo giusto la portata di fatti così gravi? Come mai le famiglie ripetono sempre che i figli sono incapaci degli atti che invece hanno commesso? Come mai si rimanda la soluzione di ogni problema dei giovani sempre alla scuola? Si sta alzando un grande polverone sulla presenza in Italia degli extracomunitari a cui siamo soliti addossare gran parte degli episodi di criminalità; quando invece i fatti recenti ci dimostrano che anche certi ragazzi nostrani se la cavano benissimo in episodi di ordinaria follia. A cosa serve invocare le sole misure forti da parte delle forze dell’ordine che non possono fare da balia a ciascuno dei nostri ragazzi. Occorrerebbe, invece, il contributo di tutti per educare diversamente i giovani, per colmare il deserto di valori che hanno dentro l'animo, inculcando loro dei sani principi civili e morali, fondati sul rispetto della persona di qualsiasi estrazione sociale, razza o credo religioso. Cosa possiamo aspettarci dalla politica nostrana, fatta di barricate, del muro contro muro, di proclami e di false promesse; quando personagi di primo piano assumono sempre più spesso posizioni radicali che istigano la gente a fare oggi la guerra agli immigrati e domani a boicottare i negozi degli ebrei; invece di diffondere tra i giovani la cultura del dialogo per risolvere ogni problema civilmente? Su quella panchina dormiva casualmente un ragazzo indiano, ma poteva essere un marocchino o un barbone italiano; non cambiava la gravità dell'offesa fatta alla dignità della persona. Perciò è solo pretesto buttarla tutta sul razzismo. I giovani sono figli di questa società malata e ne stiamo pagando le conseguenze. La famiglia deve riappropriarsi del suo ruolo storico di preparare il terreno fecondo nel fanciullo, in modo che gli insegnamenti successivi dell’istituzione scolastica non restino solo chiacchiere buttate al vento; ma contribuiscano a seminare dei valori, a far germogliare l’uomo capace di vivere in un mondo suscettibile di continui cambiamenti. Va educata la società tutta a riconsiderare un percorso che metta al centro la persona umana come valore imprescindibile da curare e da salvaguardare, se vogliamo conservare la speranza di un mondo dove la civile convivenza, il dialogo, la tolleranza, il rispetto dell’altrui pensiero abbiano regolare cittadinanza.