lunedì 31 gennaio 2011

Galline scaccia-crisi.


Il quadro clinico del nostro paese non accenna a migliorare, anche se c’è chi predica la calma  per non creare falsi allarmismi. Un giorno ci dicono che non abbiamo nulla da temere e quello dopo che si rischia di finire come Grecia, Irlanda e Portogallo. Il rapporto Istat sull’occupazione  è di appena qualche settimana fa e parla di una disoccupazione giovanile italiana che sfiora il trenta percentuale. La verità è che la nostra scuola è del tutto scollegata al mondo del lavoro e sì è ridotta a mero parcheggio di intere schiere di futuri disoccupati. Ma sappiamo anche che piangersi addosso serve a poco e che è proprio in momenti come questi che serve un po’ d’inventiva.
Sentite, ad esempio, in Spagna cosa è riuscito ad inventarsi Eduardo Otxoa, trentacinquenne di Pamplona. 
Il giovane ha deciso di realizzare una sua idea con l’aiuto del Politecnico di Madrid: affittare galline. Sono bastati un capitale di 12 euro ed un sito Internet perché l’idea si trasformasse in 6 mesi in un business creativo e redditizio, mentre in quel Paese molte aziende tradizionali fanno i conti con la crisi. Con un semplice clic di mouse al sito “alquilaunagallina.com” è possibile affittare,  da lui, galline con un investimento di 63 euro per il primo mese, che corrisponde al valore di una gallina che viene consegnata a domicilio con la sua gabbia, l’acquaio, la semenza, la garanzia di un uovo fresco al giorno. 
Dopo  30 giorni si può continuare a tenere la gallina in affitto o l’opzione di comprarla per 186 euro. Eduardo ha così realizzato trentamila euro in solo sei mesi ed ha creato una rete di distribuzione internazionale; ormai non si pone limiti di sviluppo per il suo originale progetto che vuole esportare anche in Australia.
E' questo un esempio dell'esplosione di idee provocata in Spagna dalla grande recessione in atto. Il Politecnico di Madrid è una fucina di idee nello sviluppo della cultura imprenditoriale dall'ambito accademico, attraverso la sua area di creazione di impresa. 
L'università riceve circa 300 progetti innovativi l'anno che competono fra loro, per restare fra i 15 finalisti dai quali, alla fine del corso accademico, verranno create imprese. Dal Politecnico é partita anche  l'idea brevettata degli edifici con le facciate di vetro, con l'acqua all'interno che assorbe i raggi solari, senza diminuire la luminosità, e consente di risparmiare fino al 70% di energia, oppure l’idea un dispositivo biometrico per identificare le persone attraverso la voce, con un'affidabilità vicina a quella del Dna. 
E' più che mai in tempo di crisi che la gente è aperta a idee innovatrici che fanno la differenza.

Albert Einstein diceva che” La crisi è la miglior cosa che possa accadere a persone e interi paesi perché è proprio la crisi a portare il progresso. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. E’ nella crisi che il meglio di ognuno di noi affiora perché senza crisi qualsiasi vento è una carezza.
Parlare di crisi è creare movimento; adagiarsi su di essa vuol dire esaltare il conformismo. Invece di questo, lavoriamo duro! L'unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla”.

E noi italiani cosa ci inventiamo  per aggirare la crisi nostrana?
Non siamo noi il popolo dei santi, poeti, navigatori e… degli inventori ?
E allora, coraggio!  Rimbocchiamoci le maniche e aguzziamo l'ingegno. 
Buona vita!
Maestro castello.

sabato 29 gennaio 2011

Lo sterco del diavolo.


Storiella  ebraica:                                                                                                                                             


In un tempo non precisato,  scoppiò un incendio in un piccolo villaggio israeliano che distrusse ogni cosa. L’anziano Aronne, uomo ricchissimo ed il povero Rabi, fino a quel giorno buoni vicini di casa, persero nell’incendio tutti i loro averi. Il povero rimase tranquillo, come se nulla fosse accaduto, mentre il ricco  cadde in una disperazione profonda. "Rabi", disse allora il ricco, "come è possibile che tu sia così tranquillo quando tutto ciò che avevamo è bruciato nell'incendio?" -  "Semplice” – rispose il povero – “A me è rimasto il mio Dio, mentre il tuo è bruciato con la casa".
( idea tratta da Daniel Lifschitz -  "Storielle di rabbini mendicanti e malandrini" e riscritta da maestrocastello).


Per la riflessione….                                                                                                                            
Di tutti i desideri che affollano il suo animo, l’avaro ne radicalizza solo uno: l’avere, il possedere. E lui perciò può ben dire : "Sono ciò che possiedo". Il resto non conta più nulla. «Alla povertà mancano tante cose – diceva il poeta Publilio Siro – all'avarizia tutte». L’avaro ha un tratto di ossessività con ciò che possiede, soprattutto con il denaro inteso come ogni sorta di moneta e per estensione ciò che rappresenta questa moneta: capitale, fondi, fortuna, contante, pecunia, grana, rendite e quant’altro. Il suo è un desiderio mai soddisfatto. E’ un po’ come il mare che pur ricevendo un gran numero di fiumi non si riempie mai. L’avaro confonde il mezzo, ciò che possiede,  con il fine e vive in miseria perenne per paura della miseria. Il suo tormento, la sua idea fissa è possedere, accumulare e vive solo per risparmiare, a costo di restare immerso nella solitudine; tagliato fuori dal gioco della vita. L’avarizia è uno dei grandi mali che affliggono l’uomo. La principale rappresentazione simbolica del denaro nell’iconografia medievale è una borsa che,  appesa al collo del ricco, lo trascina all’inferno ( J. Le Goff). Allora, direte voi,  non dobbiamo pensare oggi per il domani? Pensare al futuro è da saggi, insensato invece è vivere solo per risparmiare e accumulare, perché ciò comporta solitudine e tristezza. L’insegnamento evangelico che ricorda Matteo, 6, 24: ”Nessuno può servire due padroni..” viene ampiamente disatteso da tanti che si dicono cristiani. Bisognerebbe rileggersi ogni tanto il Vangelo e riflettere. San Francesco s’era spogliato di tutti i suoi beni e mai avrebbe pensato che, dopo di lui, la gestione degli enormi proventi delle elemosine avrebbero fatto del suo ordine monastico uno strumento di usura. La storia racconta pure che nel Medio Evo l’usura rappresentava per la Chiesa il peggiore dei peccati e nei secoli successivi la stessa Chiesa riabilitò chi prestava “a strozzo” perché si dovevano combattere crociate, costruire chiese e sia papi che imperatori non  avevano i mezzi sufficienti. Un esempio per tutti ne sia il mercato delle indulgenze che provocò lacerazioni interne alla Chiesa di Roma.  Oggi, la cultura della globalizzazione economico-finanziaria ha elevato il mito dell'efficienza e della produttività dell'homo aeconomicus a criterio unico di giudizio e di giustificazione non solo della realtà economica ma anche della vita; legittimando l'avidità quale motore della produttività.  Non esiste più una chiara linea di demarcazione fra essere e avere. Molti hanno dimenticato che l'opposto della povertà non è la ricchezza, ma  la giustizia e che ci presenteremo nudi al rendiconto finale.
Buona vita!
maestrocastello

giovedì 27 gennaio 2011

Son morto con altri cento......


Sessantasei anni fa, il 27 gennaio del ’45 venivano aperti i cancelli di Auschwitz. Le immagini che apparvero agli occhi dei soldati sovietici che liberarono il campo di concentramento sono ancora impresse nella nostra memoria collettiva (R. Gattegna). I crimini efferati che furono commessi ai danni degli ebrei ed altre categorie di oppressi sono crimini contro l’umanità tutta che si domanda ancora come tutto ciò sia potuto accadere. Notizie sulle deportazioni le abbiamo apprese a scuola ed è stato riduttivo esaurire così dolorosi avvenimenti in una paginetta del libro di storia, presto dimenticata alla fine degli anni di scuola. Ancora sono in vita quei pochi scampati alla morte dei lager che possono riferire fatti terribili causati dall’odio di razza. E quando non saranno più in vita? Qualcuno si ricorderà ancora che uomini di questo pianeta abbiano potuto scadere così in basso da calpestare la dignità di altri uomini, riducendo i loro corpi in sapone o addirittura in pantofole? Avere un giorno della memoria è un modo certamente utile; ma attenti a non scadere in retorica! Bisogna favorire una riflessione vivace nei ragazzi, per rendere forse il servizio migliore a questo giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico deve fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche pratici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più. Va, inoltre, ricordato che “lager” è termine che significa “sterminio” e abbiamo il dovere di accomunarlo ad altri similari come “gulag” e “foibe”che sono legati ai massacri di massa, dovuti a motivi di etnia, di credo politico o religioso e tutti quanti calpestano la dignità delle persone. Nessuno ha il diritto, per fini politici, di appropriarsi di questo o quel fatto di umano dolore; è come se tanta povera gente sia morta per nulla. Le aberrazioni del nazismo non sono diverse dalle atrocità del comunismo o dello stupido nazionalismo; “è sempre la banalità del male che guida la mente di chi non pensa, chi non riflette, chi non ha idee proprie, chi non dà valore e giudizio alle loro azioni e alle loro conseguenze”  come suggerisce il filosofo Aannah Arendt. Purtroppo anche oggi sorgono nuove tendenze razziste che ci devono far riflettere. La nostra ragione deve spingerci a rifiutare ogni forma di razzismo, perché esso non possa impadronirsi di un intero popolo e portare a un'altra tragedia. Bisogna fare in modo di evitare che nuovamente l'uomo ricada negli stessi crudeli errori del passato. Viviamo nel nostro presente, mantenendo sempre vivo il ricordo di ciò che è accaduto perché esso ci permetta di vivere una vita migliore, da persone capaci di apprezzare in se stessi e negli altri ogni minima cosa. Dobbiamo far tesoro degli errori degli altri, per evitare di ripeterli noi, anche in forma minore.

Buona vita!
maestrocastello

mercoledì 26 gennaio 2011

Auguri a Romano Andrea Da Rif per il suo pensionamento!

Andrea premiato dal governatore di Chubut e dal sindaco di Rawson
Un importante quotidiano argentino ha riportato la notizia che Romano Andrea Da Rif ha preso la via del pensionamento dopo quarant'anni di onorato servizio come capo radiologo in un importante ospedale di Rawson e gli ha voluto rendere un omaggio pubblico. Si dà il caso che Andrea è italiano e figlio di italiani. Suo padre Candido, partendo moltissimi anni fa da quel di Falcade di Belluno, tentò la fortuna nella lontana Argentina. Prima suo padre e poi Andrea  hanno tenuto sempre alto il nome dell'Italia, facendosi strada nel nuovo Paese che li ha accolti come figli. Andrea è legato molto alla sua prima patria, l'Italia, ed ogni tanto vi porta suo figlio Tomas perchè possa conoscerla ed amarla, proprio come la ama lui. Vogliamo anche noi rendere omaggio a questo nostro cugino lontano, facendogli un mondo di auguri che possa godersi di più la famiglia e lo aspettiamo presto in Italia.  
Auguri Andrea, ti vogliamo bene!
Un abbraccio affettuoso da tutti tutti i tuoi cugini italiani: Marco e Mery, Giovanna e Giovanni, Daniela e Fabrizio, Diego e Leslie, Ivan, Ilaria., Matteo, Lara e Luigi Maria.


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Riportiamo l'articolo in lingua spagnola e tradotto da Marco Poltronieri in lingua italiana.


Homenaje al Primer Técnico Radiólogo del Hospital Santa Teresita de Rawson.


Como Jefe del Servicio de Radiología del Hospital y luego de cuarenta años de trabajo sostenido a favor de su comunidad, Romano Andrés Da Rif concluye el ciclo de su carrera profesional e inicia una nueva etapa con la certeza de la misión cumplida.
El mejor homenaje que puede tributarse a las personas, por su entrega, por la calidad humana, por los méritos alcanzados a lo largo de su vida y por el respeto ganado en la labor realizada, es recordarlas e imitarlas.
Por ello, los compañeros del Hospital, familia, amigos y compañeros de las diferentes etapas de su intensa y comprometida vida profesional le expresan su más profunda gratitud y le desean que disfrute en plenitud y en compañía de sus seres queridos esta nueva etapa.


Omaggio al primo Radiologo dell’Ospedale Santa Teresita di Rawson

Come Capo del Servizio di Radiologia e dopo  quaranta anni di lavoro continuo per  la sua comunità, Romano Andres Da RIF, conclude il ciclo (etapa) della sua carriera professionale e comincia un nuovo periodo  col il convincimento della missione compiuta.

"Il migliore omaggio che si  può tributare alla persona, per il suo impegno, devozione, per la sua qualità umana, per suoi meriti nel percorso della sua vita e il rispetto ottenuto nel lavoro fatto, è da ´ricordare e imitare".
 Per questo, i colleghi dell' Ospedale,  la famiglia,  gli amici ed ì  compagni delle  diverse tappe della intensa e impegnativa vita professionale, gli vogliono esprimere  la loro più profonda gratitudine e  augurargli dì  godere  in pieno con le  persone a lui più care il nuovo ciclo dì vita.

martedì 25 gennaio 2011

Il dolore merita rispetto e silenzio.

La percezione del dolore, qualunque sia la sua origine, è strettamente personale e nessuno è in grado di  calarsi nei panni degli altri  fino in fondo. Malgrado ciò, troveremo chi, a parità di evento doloroso, sarà capace di declamare il suo come il dolore maggiore. Chissà quante volte è successo più o meno a tutti di assistere a vere sceneggiate e magari per perfette banalità e, al contrario, vedere mamme impietrite davanti alla morte di un figlio: non un lamento, non una sola lacrima che portano perfino a dire: “ ma come fa quella donna non provare dolore?”.        Purtroppo il dolore non sempre sfocia nel pianto ed ecco che quel genitore che ha trattenuto tutto dentro, deve poi elaborare il proprio dolore represso sul lettino di uno specialista. Capita pure che si arrivi ad osservare e confrontare tutte le sfumature che comprende il dolore. Prendiamo il caso di Yara, la ragazzina scomparsa a dicembre in provincia di Bergamo. La sua scomparsa capita subito dopo quella di Sarah, ma questa volta in un paesino del nord. Sarah e Yara, Avetrana e Brembate di Sopra; nord e sud. Sarah era pronta a recarsi al mare, mentre Yara si muoveva in un posto dove c’è spesso la neve. Sarah si è fatta trovare, Yara la stanno ancora cercando. Una è certamente morta, l’altra potrebbe essere ancora in vita. Ma la differenza sostanziale delle due vicende sta certamente nell’atteggiamento tenuto dalle due  famiglie nei confronti dei mezzi d’informazione e non viceversa. I media e soprattutto la televisione hanno fatto un salto di qualità, passando dal circo mediatico  alla fiction e sconfinando nel federalismo del dolore. Ricordate i plastici di Bruno Vespa, il maglioncino di Crepet , i tanti consulenti ed avvocati difensori che hanno raccontano solo se stessi. Ad Avetrana un’intera comunità s’è prestata ai riflettori a fianco dei familiari di Sarah, mentre a Brembate di Sopra i giornalisti si sono ridotti a  spiare le tapparelle appena sollevate di una casa che non s’è mai aperta alla curiosità generale. In ogni thriller che si rispetti poi vi è contemplato anche un mostro che rende più avvincente una storia e il mostro di Sarah s’è consegnato praticamente da solo. Anche a Brembate avevano  trovato il mostro, il marocchino sfigato che stava "scappando" a casa su un battello. E subito a dire "il solito clandestino!", "Cacciamoli via tutti!", "Pena di morte!". Peccato che non è stato lui, anzi è lui che ci ha dato uno schiaffo morale, perchè lui resta qui in quanto è regolare, qui lavora e si trova bene, lui non spaccia e non si droga, lui è incazzato ma perdona e capisce. Lui è solo vittima di una società allo sbando, di una politica che non media e non aiuta a capire, di una tivvù che specula pure sul pianto di tanta povera gente. Non sapendo proprio a cosa attaccarsi, i discorsi della televisione sono degenerati sul confronto del diverso atteggiamento delle due famiglie. Nessuno ha considerato che tutto si giustifica davanti a tanto dolore, che è irrispettoso e quasi razzistico fare paragoni perchè il dolore dei genitori è lo stesso; di diverso c’è solo il modo di esprimerlo, raccontarlo o non raccontarlo e questo proprio perchè i protagonisti non sono degli attori che recitano, ma genitori che soffrono e chi soffre merita rispetto e silenzio.
Buona vita!
maestrocastello

sabato 22 gennaio 2011

Bisogna ritornare alla terra!

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere sulla Gazzetta del Mezzogiorno l’intervista  ad un certo signor Domenico, giovane coltivatore di Mola di Bari che ha trasformato l’azienda agricola di famiglia specializzata nella coltivazione dell’uva da tavola in attività agrituristica. La sua tenuta vinicola è divenuta così una Country House la cui mission è il ritorno alla natura e alla vita agreste. La cosa che trovo fantastica è sentire che finalmente anche al sud qualcuno abbia voglia e coraggio di investire risorse su progetti di lavoro innovativi rispetto al passato, senza aspettare la manna dal cielo. Domenico fin da piccolo ha la passione per l’agricoltura, come tanta gente del sud e oggi ha preso questa decisione per promuovere le proprie produzioni agricole, il territorio ed anche la cultura della civiltà contadina pugliese. Come lui, giustamente anche noi siamo preoccupati perchè tanti agricoltori stanno perdendo la voglia di credere nel proprio lavoro ed abbandonano la campagna, in quanto si sentono poco tutelati dallo Stato. In questi anni le politiche nazionali non hanno  investito buone idee in agricoltura e  anche la società ha creduto erroneamente che lavorare la terra fosse marginale, con la conseguenza di allontanare i giovani dal lavoro nei campi. L’essere entrati in Europa, mentre da una parte ha avuto degli effetti negativi con l’invasione nei nostri mercati di prodotti ortofrutticoli a basso costo e di bassa qualità; ha portato però anche tante opportunità di veder finanziati molteplici progetti: l’importante è non lasciarsele sfuggire queste occasioni, specialmente da parte dei giovani  meridionali . Il settore agricolo deve ritornare un settore primario in Italia, oggi più di ieri, perché rappresenta una garanzia per i consumatori e una grande opportunità lavorativa per i nostri giovani. Attraverso una sapiente valorizzazione dei prodotti tipici del nostro territorio il settore agricolo può essere un utile strumento per promuovere l’Italia. Le nostre produzioni  sono riconosciute patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, perché espressione della dieta Mediterranea e possono, di fatto, essere un volano per il settore agricolo. Non credo minimamente che il Sud abbia povertà di mezzi, tutt’altro! Serve solo il coraggio di fare investimenti sul proprio territorio, anche se  sussistono tanti fattori negativi che scoraggiano gli investitori meridionali come le lungaggini burocratiche, il pizzo istituzionalizzato dalla malavita che ha ormai preso il posto dello Stato su tante zone del Sud e la totale mancanza di infrastrutture. Serve coraggio e iniziativa privata di molti meridionali che,  invece di  arricchire le banche, facciano investimenti  e creino posti di lavoro per i figli di quegli emigranti che, un tempo, abbandonarono quelle terre che ora non aspettano altro che ritornare a produrre. Bisogna mettersi in testa che è finito il tempo delle vacche grasse, che non è più tempo di sognare il posto fisso, che è un’illusione aspettare l’industriale lombardo nei panni dello zio d’America che  viene ad investire in provincia di Foggia, che le fabbriche del Nord cercano di andarsene all’estero : esempio ne sia il caso Mirafiori a Torino. Ora c’è un grande vantaggio, perché anche il mercato del lavoro è diventato un mercato globale. Sentite questa: qualche mese fa 3 giovanissimi italiani (22, 28 e 22 anni)  a cui in Italia tutti avevano bocciato un loro progetto sulla produzione di foftwares, decidono di partire negli USA e presentano, da perfetti sconosciuti, il loro progetto ad una società colosso dell’informatica americana. Vi sembrerà incredibile, ma hanno vinto su tanti col loro semplice progetto, ottenendo un finanziamento di centomila dollari ed ora girano per l’Europa a far conoscere il loro prodotto. E’ un caso che quei ragazzi siano italiani del Nord, ma potevano essere benissimo di un’altra parte d’Italia. Come vedete, basta crederci. Una volta lessi questo strano cartello in un'officina meccanica: noi rendiamo possibili le cose impossibili, per i miracoli ci stiamo attrezzando! 
Alla gente del Sud si chiede solo voglia di fare, poi arriveranno anche i miracoli..
Buona vita!
maestrocastello

mercoledì 19 gennaio 2011

le verità trascurate.


In queste ultime settimane la televisione manda spot pubblicitari sul centocinquantenario  dell’Unità d’Italia, col solo scopo di convincere gli italiani, in quanto italiani, a corrispondere alla Rai un canone assurdo. La TV pubblica che non si sa più cosa sia diventata commette lo stesso errore che fanno in tanti: manda un’immagine roboante del Popolo Italiano, un’immagine patinata che è lontana anni luce dal popolo reale. E’ la stessa immagine stereotipata che ci hanno propinato fra i banchi delle elementari: ci hanno dipinto i maggiori personaggi che hanno fatto il Risorgimento come dei supereroi. Giuseppe Garibaldi lo vedevamo come una specie di Mazzinga o l’Uomo Ragno che tanto affascinava bambini nemmeno decenni.  Io, per esempio, fissavo le loro figure sul sussidiario e li vedevo come dei beati a cui mancava solo l’aureola in testa. Infatti mandavamo a memoria la vita di ciascuno, come si faceva con la vita dei santi: Giuseppe Mazzini è nato a Genova nel 1805 dal padre Giacomo, medico e professore di anatomia e da Maria Drago (fervente giansenista), di professione insegnante. Da bambino, mentre era con la madre al porto di Genova vide portare in catene dei proscritti…… vi ricordate cosa mandavamo a memoria senza capire nemmeno il significato della parola proscritti. Ricordo che, dopo un racconto particolarmente appassionato del maestro , mi scappava perfino la lacrimuccia. Ora vi domando, in tutta franchezza, se il Risorgimento Italiano sia stata davvero un’operazione di libertà o  non  piuttosto un’invasione in piena regola, patrocinata dalla Casa Savoia, simile  a quella compiuta dagli americani, in questi anni, nei paesi mediorientali che detengono pozzi di petrolio?Vi siete mai domandato perché i Savoia non siano mai stati amati da nessuno? Naturalmente ciascuno rimanga della propria idea che s’è fatto a proposito. Finalmente è iniziato il tempo del revisionismo, anche se c’è il tentativo di ciascuno di voler riscrivere la storia secondo il proprio orientamento politico. Dai  tanti saggi, romanzi e films che hanno per tema il Risorgimento Italiano veniamo a scoprire tutta un’altra storia. Allora qualcuno ci ha mentito! Film come:”Noi credevamo di Mario Martone o libri come: “I Traditori” di De Cataldo, “Terroni” di Pino Aprile e “Il sangue del Sud” dello storico Giordano Bruno Guerri hanno avuto successo perché raccontano appunto un’altra storia in modo sereno, non scandalizzando e non indignando; raccontano le vicende di una parte d’Italia, il sud, e restituiscono verità e dignità ad un’intera nazione, l’Italia, tanto amata e tanto vituperata. Direte voi, che senso abbia parlare di cose che appartengono ormai al passato e che sia solo un modo per farsi del male, facendo riaffiorare ulteriori rancori che già avvelenano e dividono la gente di questo Paese. Penso, invece, che è solo col riscatto delle verità trascurate che potremo mettere un po’ d’ordine nella nostra storia nazionale e ciò non potrà che fare bene sia ai vincitori che ai vinti, per tracciare la giusta direzione in cui sia lecito chiamarsi italiani. O pensate forse che abbia vinto qualcuno, se siamo riusciti a costruire un Paese che da Trento a Catania si odia così tanto? E i morti di quelle guerre intestine, pensate che riposano in pace? Gente che è morta a casa propria, senza saperne il perché. E’ solo riscattando quelle verità nascoste che potremo restituire voce e riposo a tanta povera gente che è morta per mano di chi veniva a portare una presunta libertà, imposta e mai richiesta, e daremo a tutti noi la speranza di guardare serenamente al futuro.

Buona vita!

maestrocastello

lunedì 17 gennaio 2011

La migrazione dai nonni ai nipoti oggi...

Il nonno Candido (primo da destra) arriva in nave in Argentina.
il figlio Andrea e il nipote Tomas tornano in treno in Italia.


post inviato da
Graciela Noemi Papaianni                                
Argentina. Patagonia
16 gennaio 2011
                         


La migrazione è un tema storico che è stato motivo di preoccupazione e di analisi. Ogni volta affiorano sfumature diverse ed altre questioni che rimanevano nascoste. Al tempo dei nostri nonni (inizio 1900) il motivo è stato visto nelle guerre che hanno portato la gente ad emigrare senza troppe possibilità di scelta. Oggi che anche i nipoti di quelle persone  ritornano a migrare i motivi sono diversi, forse associati più alla ricerca di nuove opportunità legate alla crescita come persone. Ma, in un caso o nell'altro, i processi psicologici  dell’emigrante sono gli stessi; però, quando si tratta di questioni di sopravvivenza, la migrazione è più dolorosa, perché è quasi un'espulsione dal luogo di origine, è un abbandono; perchè si è costretti dalle circostanze che spingono a lasciare qualcosa di così caro come le radici. Ciò che coincide in entrambi i casi è l’abbandono delle proprie abitudini per integrarsi con con un nuovo modo di vivere. Questo processo si chiama dolore e genera la malinconia propria dell’emigrante, la nostalgia per la terra, per la famiglia, il luogo d’origine, la lingua, gli amici, gli odori familiari, il paesaggio, il clima, la cultura, le usanze del luogo d’origine. In sintesi, quest’atteggiamento sociale è come se desse loro una nuova opportunità di vita, un’occasione di migliorarsi; è l'atteggiamento sociale comune dell'immigrante che tende a conservare certe linee comuni. Questo dolore implica una profonda crisi, un cambiamento, un rinnovamento, una maturazione ed un apprendere costante. Una delle questioni chiave in questo processo interno, come sottolinea Harfuch, è che "la persona riesca ad integrare quello che porta come bagaglio proprio e personale e quanto v’è di nuovo nel  posto da lui scelto e così prepari  il suo nuovo spazio di vita e ristrutturi la sua personalità alla nuova situazione". Negli ultimi anni si osserva un'onda migratoria compiuta dai nipoti degli emigranti dell’inizio del secolo scorso che era gente giovane che apportò la propria forza nel paese di accoglienza, la stessa forza che portano anche i loro nipoti che sono alla ricerca di qualcosa che vogliono trovare in quelle terre. Non è nè più nè meno che un ritorno all’antico, alle origini; per poter apprendere qualcosa sull’identità perduta, per comprendere da dove veniamo e la possibilità che nella loro direzione possano incontrare se stessi in questo mondo e poter tracciare il miglior cammino che gli si prospetta. Da qui nasce la necessità per l’emigrante di conservare le proprie usanze, in modo da lenire il dolore che comporta la perdita, il dolore... quello trasmesso ai figli, quello che provano quando ritornano alle origini: “erano già passati per questa steassa strada, avevano sperimentato questi rumori, questi profumi di cibo etc, etc. Ma oggi, quando i loro nipoti fanno per tornare alla loro terra, al paese d’origine dei loro nonni, di cui fanno parte anche loro, perchè molti hanno anche la cittadinanza per adozione; incontrano non poche difficoltà e si sentono dire che non c’è posto. Allora questi nipoti si chiedono: “Come è possibile che, un centinaio di anni fa, mio nonno lo hanno accolto a braccia aperte come fosse la sua patria? E adesso il suo stesso paese che lo aveva espulso per non avergli dato il minimo di lavoro che era necessario per la sopravvivenza e la dignità, non consente loro di ritornare?

Mi domando anche cosa direbbero i nonni, se vivessero oggi, di questa situazione...... molto probabilmente proverebbero dolore e delusione.
(traduzione di Marco Poltronieri)



Ospitiamo con molto piacere il post di Graciela, assidua lettrice di questo blog e la ringraziamo per la collaborazione. Graciela è docente universitaria che vive in Patagonia e lei sì che ha realizzato la vera Unità d'Italia: argentina e figlia di calabresi, ha incontrato  e sposato Andres, figlio di veneti e dalla loro unione è nato Tomas che sta cercando di scoprire, poco alla volta,  il meraviglioso paese di suo nonno Candido. Un ringraziamento anche a  Marco Poltronieri per la fedele traduzione dalla lingua spagnola.


Buona vita!
maestrocastello









sabato 15 gennaio 2011

Non si affitta ai meridionali.

Quest’anno si festeggiano i 150 anni dell’unità d’Italia, eppure il Regno delle due Sicilie era uno degli stati europei più prosperi che non conosceva emigrazione alcuna. La sua posizione strategica nel Mediterraneo e la sua politica che lo rendevano indipendente erano contrarie agli interessi dei Savoia e delle altre potenze europee del tempo. Il rapporto tra debito, con interessi, e prodotto interno lordo era del 16% in confronto del Piemonte dove ammontava al 75%. Le prima emigrazione massiccia fu proprio quella del Nord con Piemonte, Veneto e Friuli in particolare ed erano i secoli XIX° e XX°. Solo dal 1880, dopo la forzata unificazione che costò perdita di vite umane, soprusi, violenze sulle donne meridionali da parte delle truppe piemontesi e trafugamento del ricchissimo tesoro del Regno di Napoli; milioni di calabresi, campani, pugliesi  e siciliani furono costretti a cercar fortuna oltreoceano. L’altra emigrazione più recente si avrà col boom economico, agli inizi degli anni ’60, ma quella sarà una migrazione tutta interna, non esente da tutti i problemi ad essa connessi che noi del Sud ci siamo trascinati fino a pochi anni addietro. Ci  ritornano alla memoria i tempi in cui gli schiavi emigrati meridionali si imbattevano negli implacabili cartelli posti all’ingresso di certi locali pubblici padani quale monito discriminatorio sub-razziale e territoriale: “ Vietato l’ingresso ai cani e ai  terroni”. E quando il povero cristo, stanco di dividere il giaciglio coi compagni di cantiere, si metteva in cerca di un alloggio per accogliere finalmente la famiglia rimasta al paese, s’imbatteva spesso in altri cartelli con la dicitura:”Non si affitta ai meridionali”, perché ci consideravano sporchi ed incivili, abituati a coltivare i pomodori nella vasca da bagno. Sono passati tanti anni ma molti pregiudizi sono davvero duri a morire: quelli del Nord sono intolleranti verso quelli del Sud, quelli del Sud, a loro volta, si rifanno verso i rumeni, i cinesi, gli africani e sembra che ci siamo dimenticati  del tutto quando gli stranieri eravamo noi. Certo che l'esilio è proprio brutto. Dice Dante nel canto XVII° del Paradiso, a proposito di esilio da lui vissuto negli ultimi anni di vita: “Tu proverai sí come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale”.
Buona vita
maestrocastello



Post Scriptum. Ho scovato questo racconto di Silvana Perotti sullo stesso argomento trattato da noi quest'oggi che mi sembra molto significativo, perchè  una donna del nord racconta i disagi dell'emigrazione di una donna del sud, perchè ricorda il tema del film :"Benvenuti al sud" che la protagonista vivrà in prima persona ed anche perchè ritrae in modo mirabile e con pochi tratti significativi ( molto brava la scrittrice Perotti) i disagi della donna emigrante del sud che sputa sangue ma non demorde, consapevole di avere quell'unica occasione di riscatto e che , a diferenza dei suoi fratelli, non si lascerà certamente sfuggire. Leggere il racconto richiede cinque minuti del vostro tempo, ma vi assicuro ne vale proprio la pena.

                                             (non si affitta ai meridionali)


di Silvana Perotti


«Franca, Franca», la chiamo correndole incontro lungo l'interminabile corridoio. Quattro specie di gorilla mi sbarrano il passo e mi trattengono torcendomi un braccio dietro la schiena. Lei si ferma di botto, mi scruta un attimo e ordina: «Lasciatela, è tutto a posto».
Poi si rivolge a me, con un sorriso insieme felice e meravigliato negli occhi scuri: «Valeria! Ma sei proprio tu? Dio, quanto tempo è passato. Che ci fai qui?». Non faccio in tempo a risponderle, che uno degli energumeni la sollecita, rivolgendosi a lei con un misto di affetto e rispetto: «Signor Giudice, la stanno aspettando». «Vengo subito» risponde, e chiudendomi la mano in una stretta e forte, mi dice: «Scusami, devo essere in Pretura fra dieci minuti. Ma voglio rivederti». E si avvia con passo svelto, seguita dagli uomini della scorta.
Mi ritrovo sola nel corridoio, con mille ricordi che si affollano alla mente. Quasi inconsapevolmente mi affaccio a uno dei finestroni aperti che lasciano entrare un'afa appiccicosa e vedo Franca scendere lo scalone che porta alla strada trafficata. La fisso mentre sta per salire sull'auto blindata. Come se sentisse il mio sguardo alza la testa e i nostri occhi si incontrano. Mi sorride e mi saluta sventolando una mano.
In quell'attimo un boato terribile riempie l'aria e scuote l'edificio dalle fondamenta. Il contraccolpo dell'esplosione mi butta a terra, in mezzo a vetri rotti e calcinacci. Mi sento dolere dappertutto e mi passo una mano sulla faccia: la ritiro sporca di sangue. Quando riesco a rimettermi in piedi, assalita da una orribile premonizione, mi afferro con le mani alla finestra sventrata e cerco con gli occhi l'auto di Franca.
 
Al suo posto c'è solo un cratere pieno di fumo.
Aveva i capelli neri, gli occhi neri e la pelle olivastra. Era una strana bambina, così diversa dai bambini che ero abituata a frequentare. Magra di una magrezza spigolosa, gli occhi scuri sempre crucciati e denti bianchissimi in una bocca che raramente si apriva in un sorriso restio e pieno di timidezza. Parlava pochissimo e quando parlava io non la capivo, anche se la mamma diceva che parlava italiano. 
Venne a casa nostra in quello stesso anno in cui cominciarono ad apparire quegli strani cartelli, il cui significato mi era oscuro: «Non si affitta a meridionali», stava scritto su di un foglio di cartoncino bianco, appeso vicino al numero dei palazzi.
 
«Chi sono i meridionali?» chiesi un giorno a papà. Avrò avuto sette anni.
«Persone come noi», mi rispose lui senza darmi altre spiegazioni. Nella mia fantasia, però, «i meridionali» erano personaggi misteriosi di cui era proibito parlare. Credevo appartenessero a una setta, come quella di cui avevo letto su di un fumetto terrificante, composta da persone che si riunivano per bruciare crocifissi e sacrificare bambini.
A volte, quando accompagnavo la mamma a fare la spesa nei negozi del quartiere, ne sentivo parlare in dialetto dalle bottegaie. Ma loro non li chiamavano «meridionali». Li chiamavano, «terun».
 
Inconsapevolmente cominciai allora a odiare ogni forma di razzismo: mi erano antipatiche quelle bottegaie, con i loro grembiuli bianchi tesi sulle pance abbondanti, con le loro facce lustre di sudore e la loro puzza di formaggio e parteggiavo per i «meridionali», che loro accusavano di essere sporchi, brutti, ignoranti e di rovinare con la loro presenza la nostra bella città.
 
Scoprii finalmente chi fossero in un giorno di febbraio. Ero alla stazione con la mamma per pendere una cugina che veniva a studiare a Torino e da un treno lungo lungo con tante carrozze scesero degli uomini malvestiti e con degli strani berretti calzati sulla testa. Si trascinavano tutti delle orribili valigie legate con lo spago e in mezzo a loro c'era qualche donna vestita di nero con lo scialle tirato sulla testa. Avevano lo sguardo scuro e timoroso, come di cani affamati, e si guardavano attorno sperduti chiudendosi con le mani il colletto delle giacche striminzite.
 
«Sono meridionali» disse la mamma, rispondendo a un mio muto interrogativo «vengono a lavorare nelle fabbriche». «Perché non si mettono il cappotto?» chiesi, meravigliata dal loro abbigliamento leggero. «Non ce l'hanno» tagliò corto la mamma. Da quel giorno, ogni volta che leggevo il cartello «Non si affitta ai meridionali», mi veniva da piangere perché pensavo a quei poveretti senza casa e senza cappotto.
Franca veniva a casa mia con la sua mamma. La sua mamma faceva le pulizie. E mentre puliva, cantava. Gliela invidiavo, la sua mamma. La mia era dura e segaligna e gridava sempre. E sgridava la mamma di Franca perché non puliva abbastanza. «Loro non sono come noi, - diceva - nel bagno ci mettono le piantine di prezzemolo e dormono tutti in una stanza. E poi non hanno voglia di fare niente!».
Ricordo che una volta disse queste cose al telefono mentre Franca ascoltava. E ricordo le lacrime che rigarono le sue guance scure. Per consolarla le portai la mia bambola preferita, quella coi capelli neri e ricciuti che a piegarla chiudeva gli occhi. Ma Franca scosse la testa e indicò col dito una vecchia bambola bionda. Gliela misi in braccio e Franca la strinse forte forte e corse a nascondersi in un angolo per paura di essere sgridata. Io chiesi alla mamma il permesso di regalarle la bambola bionda, ma la mamma me lo proibì e la sera si lamentò col papà: «Devi dire alla «donna» di non portarsi più dietro quella bambina. Non mi piace che giochi con Valeria». Sconvolta da quella inutile cattiveria, impiantai un capriccio terribile e l'ebbi vinta. Cominciò così la mia amicizia con Franca.
Da allora passammo i pomeriggi a parlare. Prima a gesti, sia per timidezza sia perché Franca usava tanti termini che non comprendevo; poi via via a parole, perché Franca, andando a scuola, prese a esprimersi in un italiano più simile al mio. 
Seppi così che veniva da un paesino della Calabria e che aveva quattro fratelli. Due più piccoli e due più grandi di lei. Suo padre faceva il manovale in uno dei tanti cantieri che erano sorti per ricostruire nuove case nei «buchi» aperti dalle bombe. Vivevano tutti in due stanze senza bagno e senza riscaldamento in un vecchissimo palazzo nel centro della città. Abitavano uno di quegli appartamenti che allora si chiamavano «di ballatoio». Una lunga fila di finestre che affacciavano su di un cortile e che si aprivano su di un interminabile balcone che aveva un cesso sul fondo. Un cesso che serviva almeno sei famiglie. Il sole non entrava mai, in quelle case. Ci entravano invece grossi topi affamati e turbe di scarafaggi che uscivano a frotte dalle tubature.
 
Franca ne aveva una gran paura e mi raccontava che la notte nascondeva la testa sotto le coperte per non vederli camminare in fila indiana sulla parete del lavandino vicino al quale ogni sera sua madre metteva la branda nella quale dormiva. Suo padre aveva preso un gatto per scacciare i topi, ma una sera lo trovarono morto. Lo avevano ammazzato i topi.
 
Nemmeno io avevo molti giocattoli, ma a Franca la mia stanza sembrava il paese dei balocchi. Ricordo che carezzava per ore i piattini del servizio da cucina in miniatura che mi aveva portato Gesù Bambino. Mi aveva chiesto chi fosse Gesù Bambino e quando glielo avevo detto aveva sgranato gli occhi scuri e mi aveva spiegato che al suo paese veniva la Befana e che metteva i doni nella calza appesa, ma che a lei portava soltanto qualche noce e un pugno di fichi secchi. Quando le domandai se fosse stata cattiva scosse i capelli bruni e mi rispose con lo sguardo amaro di un adulto: «No, sono povera».
 
Gli occhi le ridevano solo quando parlava del suo paese. Ne parlava per ore. Mi raccontava del mare che d'estate diventava di smalto blu. Non ho mai conosciuto nessun altro che sapesse descrivere il colore del mare con le mani. O quello delle case. Che erano tutte bianche e che si arrampicavano su di una collina a strapiombo sul mare. Non faceva mai freddo al suo paese, diceva, gli occhi persi nella nebbia della strada. Ed ero io a guardarla con occhi sgranati quando mi raccontava delle reti colme di pesci guizzanti e di tuffi dalla roccia a strapiombo sul mare o di fichi d'india rubati nella proprietà del «signore», una specie di padrone del paese. E di sua madre che raccoglieva le olive per il «signore» e aveva sempre le unghie nere che non si pulivano nemmeno a strofinarle con la spazzola del bucato. E di suo padre, che quando gli avevano ammazzato la pecora aveva pianto battendosi i pugni sulla fronte. Poi gli avevano ucciso il fratello, quello che aveva testimoniato sull'omicidio di un contadino che non voleva cedere la terra.
Due giorni dopo aver seppellito il fratello, era salito sul treno per Torino con una valigia di cartone. Dentro c'erano un pacco di giornali per ripararsi dal freddo e un sogno. Un futuro senza pecore ammazzate per i figli. Poi l'impatto con la città. Mura grigie, facce chiuse, pregiudizi, un linguaggio sconosciuto. Un dormitorio comune, in cantiere dall'alba al tramonto, un piatto di pasta cucinato su di una cassa rovesciata, una branda gelida, il vaglia spedito all'ufficio postale del paese. Dopo molti mesi, una domenica mattina, il padre di Franca si avviò alla banchina gelida del treno proveniente da Reggio Calabria: dall'ultimo vagone, terza classe, scesero la moglie e i figli con due valigie scure. Dentro c'era tutto ciò che possedevano. Insieme a un'ipoteca per il futuro.
Franca ed io crescemmo insieme e col passare degli anni ci unì un legame che nessuno riusciva a spezzare.
Ben presto Franca si trasformò in un'adolescente di una bellezza cupa e inquietante. Formavamo una ben strana coppia, io con i miei colori sbiaditi e i lineamenti appena abbozzati e Franca con quel suo viso mediterraneo su di un corpo alto e asciutto.
 
Ricordo le ore passate a parlare, chiuse nella mia stanza. I miei discorsi erano semplici: i ragazzi, il matrimonio, forse l'insegnamento. Come i miei sogni. Franca non aveva sogni. Le sue erano determinazioni. Voleva tornare tra la sua gente, per aiutarla. Quasi si sentisse responsabile della fame, della rassegnazione, dei soprusi che costringevano il suo popolo a emigrare per un tozzo di pane. Passava le notti china sopra certi tomi di economia e di legge il cui peso sconvolgeva la mia ignoranza. «Cosa ci capisci?» le chiedevo. «Quello che tu non hai bisogno di sapere» mi rispondeva.
Ce l'aveva con i suoi fratelli che non volevano studiare e che vivevano la città come un ghetto nel quale mantenere le consuetudini del paese. «Sono quelli come loro - li accusò un giorno - che hanno fatto attaccare quei cartelli alla gente come te».
Intanto continuava ad abitare nella casa sul ballatoio, aiutava sua madre a badare ai maschi della famiglia e nel frattempo studiava con una caparbietà che stupiva i suoi insegnanti, infrangendo i loro pregiudizi. E nello studio, come in tutte le cose che faceva, metteva rabbia ed orgoglio e non legava mai con nessuno. A parte me, non aveva amici.
Nemmeno con la sua famiglia, legava più. Ma la amava di un amore viscerale, istintivo. Quasi volesse proteggerla. Ed era strano vedere quella testa fiera chinarsi, il pomeriggio, per aiutare sua madre a pulire i pavimenti di casa mia.
 
Quante volte ho rivissuto quella scena e mi sono pentita di non averla aiutata, di non aver capito la sua umiliazione. Ma nella mia stupidità davo per scontato che il mondo fosse diviso tra chi fa le cose e chi paga per farsele fare.
 
Ma lei non me ne voleva. Forse persino mi compativa. Prendeva come un privilegio la durezza della sua esistenza, perché le dava quella determinazione che io, cresciuta nella bambagia, non avrei mai posseduto.
Fino al giorno in cui suo padre morì precipitando da un'impalcatura del cantiere in cui lavorava. Ricordo Franca ai funerali. Vestita di nero da capo a piedi, senza una lacrima sul volto impietrito, sorreggeva la madre che piangeva con alte grida, nel lamento tipico delle donne del sud che da millenni piangono la morte violenta dei loro uomini. Quando mi avvicinai per consolarla, respinse anche me. «Ci sono riusciti. Lo hanno ucciso», mi disse. Da allora non l'ho incontrata più. 
Se ne andò la sera stessa. Per un po' chiesi sue notizie alla madre, poi persi di vista anche lei. Ne accantonai il ricordo, come spesso capita con quello delle persone che ti sono state care ma che sei certa di non rivedere mai più. Anche se alle volte la sua mancanza mi doleva come una vecchia ferita, di quelle che all'improvviso ti danno fitte lancinanti.
Pochi anni dopo la sua fuga, mio padre venne trasferito al sud dall'azienda in cui lavorava con l'incarico di aprire una sede in una città del meridione. 
L'impatto con quella città, così diversa dalla mia, fu terribile. All'inizio la odiai, incapace di accettare una realtà così diversa da quella cui ero abituata. Odiavo il rumore, il traffico caotico, le voci, quel dialetto così diverso dal mio e persino la luce intensa che mi feriva gli occhi.
 
Poi a poco a poco imparai ad amarla. Ad amare il calore della sua gente così capace di farmi sentire «a casa mia». Forse perché non trovai cartelli con su scritto: «Non si affitta ai settentrionali», ma solo porte spalancate. E il mare dei racconti di Franca, con il sole a picco sulle scogliere a strapiombo. E il profumo dei gelsomini e l'estate dalle mille lucertole e i vicoli bui e le cattedrali dalle volte istoriate e i palazzi traboccanti di storia.
 
Non sono mai tornata ad abitare nella mia città. Un po' trascinata dagli eventi della vita, un po' perché amo vivere qui.
 
Mi sono adattata ai ritmi, al clima, all'atmosfera di festa e insieme di tragedia che grava su questa città. Forse ne sono diventata parte anch'io. Ma alle volte mi dolgono ancora le radici. Quelle sradicate, tanto tempo fa, all'improvviso, con uno di quei colpi secchi che non fanno sentire dolore.
 
Più invecchio e più certi giorni mi assale una malinconia indefinita, come se una voce mi dicesse di tornare a cercare la mia infanzia là, dove le colline sono ondulate e la brina dell'alba accende i campi sotto il primo sole. Vorrei rivedere l'acero rosso del mio giardino e cercare la luce opaca dei lampioni dentro la nebbia. Mi mancano la parlata cadenzata della mia gente e l'arco delle montagne sbiancate dalla prima neve. Vorrei risentire il profumo dei narcisi, nel prato al fondo della vallata dove precipita il torrente. O sentire il campanaccio delle mucche che ritornano dal pascolo sull'alpe, là dove è nato mio nonno. E percorrere i portici in dicembre, per poi fermarmi, le braccia cariche di pacchi colorati, a prendere il tè in una sala calda con gli specchi dorati.
 
Fissando il mare smaltato di blu, dalla terrazza della casa in cui abito, capisco finalmente le struggenti nostalgie che inondavano lo sguardo di Franca. Le sue rabbie. I suoi occhi persi all'improvviso nel vuoto. La terra dove nasci ti si imprime nell'anima, e per quanto tu possa lasciarla, fuggirla, persino rinnegarla, costruirti un'altra vita, altri ricordi, altri amici, altri amori, lei ti resta addosso come un marchio, come un orgoglio, come un'infamia. E la cerchi senza nemmeno rendertene conto in ogni orizzonte che vedi, in ogni persona che incontri. Come un amante perduto. Il cui ricordo non ti abbandona mai.
 
Ma è qui che è nato mio figlio. E nel suo carattere ci sono le caratteristiche delle due terre che l'hanno generato. L'allegria solare del sud e le ombre delle nebbie della mia terra. Le rabbie improvvise dei vulcani e i gelidi silenzi delle vette innevate. Nascoste dietro una faccia da schiaffi e un cuore che odia le ingiustizie.
Oggi l'ho accompagnato in tribunale: deve testimoniare contro un gruppo di sbandati che hanno aggredito un nigeriano a una fermata d'autobus. La notte in cui accadde il fatto tornò a casa alle tre, un occhio pesto, il maglione stracciato, i segni delle botte date e prese, una rabbia incontrollata nella voce. 
«Quei bastardi - balbettava tra le labbra spaccate - quei bastardi! hanno fermato la macchina e gli sono saltati addosso all'improvviso. Sporco negro, gli gridavano, torna al tuo paese intanto lo pestavano a sangue. Più lui urlava e più si divertivano. Ridevano, quelle bestie. Volevo ammazzarli, mi sono buttato in mezzo. E meno male che è arrivata la polizia».
 
Poi mi ha chiesto, con quel suo sguardo chiaro offuscato dall'ira: «Perché, mamma, perché?» e ho rivisto in lui il bambino che raccoglieva i cuccioli feriti.
 
«Non lo so, Nicola. Perdonami» risposi. Solo più tardi mi sono resa conto di aver chiesto scusa a mio figlio delle brutture, delle ingiustizie, dell'odio, dell'ignoranza, delle crudeltà degli uomini. Non avevo risposte. Non ne troverò mai. Non posso capire le ragioni di quelle belve, quelle che mio figlio ha affrontato anche se lo potevano ammazzare. Così come mio padre non seppe spiegarmi, tanti anni fa, le ragioni di quel cartello appeso accanto al numero del portone di casa mia: «Non si affitta ai meridionali».
Ma ho capito le sue ragioni quando ha deciso di testimoniare contro quei delinquenti, guardandoli in piena faccia. Eppure, vigliaccamente, avrei voluto gridargli di non farlo, avrei voluto proteggerlo come quand'era bambino e correva tra le mie braccia perché qualcosa l'aveva impaurito e bastava una carezza per fargli tornare il sorriso. 
Ma non ho potuto dirgli nulla perché sono stata io che gli ho insegnato che tutti gli uomini sono uguali, e non importa il paese in cui nascono, o il colore della loro pelle, o la lingua che parlano o il Dio in cui credono. Io gli ho detto che l'odio per i diversi è il padre che ha generato i mostri della storia: la schiavitù, il razzismo, le guerre. E che ancora oggi li genera perché i mostri non hanno memoria.
 
Sono io che quando era ancora piccolo, gli ho raccontato la storia di Franca e gli ho spiegato che nel mondo ci sarà sempre qualcuno che lava i pavimenti e qualcun altro che paga per farseli lavare. E non è detto che il migliore tra i due sia quello che ha i soldi per pagare.
È stato per accompagnare Nicola a testimoniare, che ho rivisto Franca, al fondo di quel lungo corridoio del palazzo di giustizia. Franca B., magistrato assegnato all'antimafia.nsapevole di avere un'unica occasione di riscatto che non si lascerà certo sfuggire.

(Silvana Perotti)
Primo posto al PREMIO EDITORIALE PENNA D'AUTORE.



mercoledì 12 gennaio 2011

Le chiacchiere se le porta il vento, i maccheroni ingrassano la pancia.

Il linguaggio è una convenzione inventata dall’uomo per dare  informazioni o esprimere  concetti. Il nome, la parola, la definizione  indicano sì una cosa; ma non sono quella cosa. Non bisogna mai confondere il piano mentale che è proprio dei concetti col piano della realtà. Possiamo essere eruditi quanto vogliamo,  possedere i termini più appropriati di questo mondo per descrivere un  tramonto , ma non daremo mai l’idea esatta di quel tramonto.  Nessuna descrizione del tramonto potrà mai sostituirsi al tramonto stesso. La natura ultima delle cose non è definibile con parole o con idee. Il linguaggio per quanto  permetta di relazionarci  tra simili deforma in ogni caso la realtà, proprio come certi specchi deformanti  situati in certi locali pubblici che divertono gli avventori che vi si guardano attraverso e ricevono un'immagine buffa di se stessi. I sofisti, nell’antica Grecia, avevano fatto della retorica e dell’oratoria uno strumento di persuasione volto esclusivamente a riscuotere il consenso di un uditorio addomesticato e a far prevalere la propria opinione col semplice uso della parola. Spesso facevano passare per vere cose che non lo erano affatto. Nell’era della comunicazione legata alla moderna tecnologia i novelli sofisti sono numerosi. La parola è oggi l’arma del politico di turno che spesso incanta le platee con proclami zeppi di promesse che non mantiene quasi mai. Pure la moderna pubblicità si basa su cumuli di menzogne veicolate da messaggi accattivanti. Un bravo venditore è capace oggi di venderti anche l’aria fritta e con un cumulo di chiacchiere spesso senza senso. Nella meditazione Zen ci si rapporta alle cose senza il velo delle parole e dei pensieri: si cerca di scoprire la realtà al di là della mente condizionata. Si racconta di una volta che un maestro Zen doveva scegliere un monaco a cui affidare l’incarico di aprire un nuovo monastero. Convocò i suoi discepoli, pose una brocca sul pavimento e disse loro: "Sceglierò chi saprà descrivere questa brocca senza nominarla".  "È un vaso di forma rotondeggiante, con un manico e un becco" rispose il più colto dei suoi allievi. "È un recipiente di colore grigio e serve per contenere acqua o altri liquidi" disse un altro. "Non è uno zoccolo" intervenne un terzo più spiritosamente. Gli altri monaci non dissero nulla, perché erano convinti di non poter escogitare definizioni migliori. "Non c'è nessun altro?" domandò il maestro. Allora si alzò un semplice inserviente, prese la brocca in mano e la mostrò a tutti senza dire nulla. Il maestro dopo qualche istante di silenzio dichiarò: "Il monaco inserviente ha dato l’idea esatta della brocca, senza parlarne e perciò sarò lui l'abate del nuovo monastero". 
Dice un adagio:" le chiacchiere se le porta il vento, i maccheroni ingrassano la pancia".

Buona vita!

maestroccastello

lunedì 10 gennaio 2011

la pioggia del povero.

Improvvisamente attaccò a piovere e un tale piuttosto malandato che camminava tranquillo affrettò il suo passo e siccome la pioggia aumentava d’intensità, accelerò la sua andatura improvvisando con le mani una tettoia umana per tenere al riparo la sua testa canuta. Dopo pochissimo venne giù il diluvio e quel tizio tentò pure di cercare rifugio sotto un portone, ma pioveva a favore di vento e presto divenne un cencio da strizzare. Subito dopo, sempre di lì,  passò un tipo distinto con un incedere flemmatico, al riparo di un ombrello gigante, quasi incurante della pioggia battente,  anche perché sapeva di custodire nella borsa un ulteriore ombrello di ricambio.                                     

 Per la riflessione: Piove sul giusto e piove anche sull'ingiusto, ma sul giusto piove di più, perché l'ingiusto gli ha rubato l'ombrello che ora tiene  nascosto come ricambio e che certamente non utilizzerà mai.  Diceva San Basilio: ”Il pane che tu non usi è il pane dell'affamato, l'indumento appeso nel tuo guardaroba è il vestito dell'ignudo, le scarpe che tu non metti sono quelle di chi è scalzo, il denaro che tu tieni sottochiave è la moneta del povero, gli atti di carità che tu non compi diventano così le ingiustizie che tu commetti”. Se esiste chi è povero è anche un po’ colpa tua!

Buona vita!
maestrocastello

venerdì 7 gennaio 2011

a tavola con i terroni.


La dieta mediterranea è un eccellente  modello nutrizionale dei paesi del bacino del Mediterraneo a cui ci siamo ispirati anche noi italiani fino agli anni del boom economico, quando l’abbiamo scioccamente abbandonata per seguire il modello americano. Cereali, legumi, verdure, frutta fresca, olio d’oliva, tanto pesce e poca carne sono gli ingredienti di una dieta alimentare vincente rispetto alle abitudini d’oltre oceano che vede noi mediterranei con minori tassi di cardiopatia  e malattie cardiovascolari rispetto alla popolazione statunitense. Dagli anni novanta, per fortuna, è ritornata prepotentemente alla ribalta la cucina di casa nostra, quella che ha permesso alla mia generazione di crescere sani e belli, non con hamburger, ketchup e coca cola; ma con tanta pasta e broccoli, minestre di verdura, e orecchiette con le cime. Essere nato terrone non è poi stato tutto questo svantaggio. Terrone vuol dire avvezzo alla terra e proprio dalla terra la mia regione (la Puglia) trae tutti gli ingredienti per una cucina che sarà pure povera, ma che scoppia di salute. La cucina pugliese  poggia da sempre su alcuni elementi cardini quali l’olio, il grano, il vino e le verdure che le danno lustro in tutto il mondo. La cucina dei paesini dell’entroterra foggiano, come quella di Sant’Agata di Puglia, mio paesino di nascita, rispecchiava principalmente le condizioni di vita delle persone, infatti era una cucina povera o meglio semplice ed era costituita da prodotti casarecci e quanto si riusciva a coltivare in lenzuoli di terra, a volte impervi, per il sostentamento della famiglia. Ogni casa aveva la propria scorta di grano e di farina che custodiva nei "cascioni",  veri e propri silos domestici, consistenti in grossi scatoloni di legno così alti che occorreva la scala per riempirli dalla parte superiore  e, in basso sul davanti,  avevano una porticina scorrevole, quel tanto da permettere la fuoriuscita di grano o di farina. A che serviva tutta quella farina? per fare pane, pasta e dolci fatti in casa! Quando io ero piccino, circolava poca moneta  al mio paese ed era in uso la moda del baratto: un operaio veniva spesso saldato con litri d’olio o sacchi di farina. Un tempo era praticamente impensabile in una famiglia pugliese approvvigionarsi della pasta industriale acquistandola al negozio; la pasta si faceva esclusivamente in casa, non come oggi che si impasta solo nelle feste e nelle occasioni molto speciali. Quale pasta veniva confezionata a casa mia? Orecchiette (recchietelle), lagane, laganelle, fusilli, strascinati, troccoli. Ogni tipo di pasta aveva la sua fisionomia precisa: gli strascinati, per esempio, erano rettangoli di pasta che si passavano su un tagliere speciale e presentavano una faccia rugosa e una liscia; i troccoli,   somigliavano ai maccheroni alla chitarra abruzzesi e prendevano il nome dal bastone che serviva per tagliarli. Le celebri orecchiette si facevano con la forza del pollice, imprimendo su un dischetto di pasta una concavità che le faceva somigliare a una conchiglietta pronta ad accogliere il sugo. Un ricordo legato alle orecchiette è che a casa mia le mangiavo di formato gigante: a mio padre piacevano grandi perchè accoglievano molto sugo; mentre mia zia Angela le faceva minute come un mignolo, ma posso assicurarvi che sono gustose in entrambi i formati. E per non scontentare nessuno, prima mangiavo quelle giganti di mia madre e poi assaporavo quelle mignon di mia zia!  Si trattava comunque sempre di pasta a base di semola di grano duro, callosa e robusta, molto saporita. Per condire era tradizionale il ragù fatto con la conserva(concentrato di pomodoro) che raramente era di carne che compariva in tavola solo di domenica e feste comandate; mentre quasi sempre era un sugo preparato con diverse verdure locali: pasta e cime di broccoli; pasta e cavoli; maccheroni e melanzane; pasta e fagioli; pasta e purea di fave; spaghetti e cicoria; pasta e rucola; fiori di zucchine con pasta e pomodoro che da bambino odiavo ed ora pagherei oro per rimangiarle. La più celebre verdura era la cima di rapa, quella che insaporiva le orecchiette che oggi si fanno industrialmente e sono molto diffuse in tutta l'Italia; si aggiungevano acciughe sciolte nell'olio e aglio: un entusiasmante incontro di gusti e di aromi. Mia madre che praticava la campagna spesso riportava altre varietà di verdure selvatiche come i marasciuni (erbette amare che crescono nelle vigne), la cicoria riccia, i finocchietti selvatici, i taddi (i gambi teneri delle piante di zucca) e usualmente le cucinava con la pasta.  Praticamente la pasta si sposava con tutto, proprio come una mignotta! La mangiavo a pranzo e a cena e la sera era più buona fredda, quando s’era riposata e  aveva assorbito meglio il condimento. Ci pensate, facevamo la dieta mediterranea senza saperlo e l’avremmo scoperto cinquant’anni dopo e cioè oggi, quando resta difficile trovare cibi che non siano trattati con pesticidi dannosi alla salute; oggi che per mangiare una buona "pasta e fagioli" è  divenuta una questione di stato. Chi non s’è mai mosso dal paese e invidia il vivere di città non si rende conto della fortuna di  poter ancora mangiare una coscetta di pollo, facendo fatica a staccare la ciccia ben amalgamata all’osso. Il pollo di Sant’Agata ancora ruspa, becca, gorgheggia e piscia all’aria aperta, non come il pollo  cittadino  sempre chiuso un una gabbietta numerata, dove fa tutto ad orario stabilito e quando arriva l’ora d’essere spennato, sembra perfino felice di uscire dal suo isolamento e pare ben contento di finire su tavolate festanti; seppure adagiato in un mare di spezie e contornato di patate al forno.

Buona vita e buon appetito!
maestrocastello