giovedì 28 luglio 2011

In rete, ma non come pesci!


Pollicino era entrato in rete e non lo sapeva. Se ne andava  col suo mucchio di sassolini bianchi che gli uscivano ad uno ad uno dalle tasche per segnarne gli spostamenti. La moderna tecnologia ci ha ridotto come tanti Pollicino. Non è forse ciò che facciamo anche noi giornalmente quando ci spostiamo con i nostri telefonini di ultima generazione; solo che invece di lasciar cadere sassi, lanciamo segnali del nostro passaggio in un luogo. “Uomini e dati” è il tema sull’ultimo rapporto in fatto di privacy che lancia un serio allarme su web e smatphone. Ce ne andiamo a spasso ostentando orgogliosi l’ultimo modello di iphone e siamo inconsapevoli che numeri di cellulari, pin del bancomat, geolocalizzazioni, video condivisi, social network a cui siamo regolarmente iscritti, siano strumenti attraverso cui possono essere facilmente controllate le nostre vite. Non è un caso che nelle vicende di Sara, di Yara ed  anche di Melania il telefono cellulare abbia rivestito sempre un ruolo centrale per ricercare indizi. Queste diavolerie tecnologiche che tanto ci affascinano, se da un lato ci semplificano la vita; dall’altro ce la condizionano fino a farcela espropriare. Siamo esposti costantemente allo sciacallaggio mediatico, al telemarketing violento e ai rischi della “nuvola”. La “nuvola”, ovvero quel sistema tecnologico a cui ci colleghiamo col nostro smartphone e che ci permette di memorizzare, archiviare dati e di elaborarli attraverso le varie risorse di rete.  Già ci avevano spaventati con la notizia che l’uso prolungato del telefonino potesse provocare il cancro al cervello ed ora siamo a rischio dei  vari grandi fratelli che possono strumentalizzare le nostre vite. Che fare allora, spegnere internet? La rete è uno strumento di democrazia troppo importante a cui non possiamo mettere il bavaglio, come hanno dimostrato i moti spontanei e popolari dei vari paesi nordafricani. Dobbiamo pretendere dagli altri maggiore sicurezza e controlli sulle reti e sui contenuti delle comunicazioni ed esigere da  noi stessi cura di non disseminare facilmente dati personali, cambiare spesso password della posta elettronica e di non immettere codici segreti se non strettamente necessari.  Dobbiamo aver sempre presente che i nostri telefonini sono costantemente localizzati ed il gran numero di dati e informazioni contenuti in rubriche telefoniche  ed agende possono essere conosciuti, trattati e conservati  da gente che sfugge al nostro controllo. Se Pollicino se la cavò con i sassi, noi in qualche modo faremo. Dobbiamo andare in rete, ma non come  pesci!
Buona vita!
maestrocastello.

lunedì 18 luglio 2011

Quote rosa? un contentino per le donne italiane!


Il Tar del Lazio ha appena azzerato la giunta romana del sindaco Alemanno per la sproporzione esistente nel rapporto tra uomini e donne all’interno della giunta capitolina: 9 assessori maschi contro 2 sole presenze femminili. Ed ecco pronto un rimpastino che prevede l’ingresso di Rosella Sensi, presidente uscente della Roma calcio, quale nuovo assessore con delega “alla promozione della città ed allo sport”. Per Alemanno trattasi di un ricorso ingiusto e strumentale, in quanto” il Consiglio è andato avanti per quasi 3 anni con due sole donne, senza nessuna contestazione”. Per noi si riaffaccia l’odioso argomento delle “quote rosa” o “quote di genere” come le chiamano negli altri Paesi, ovvero quote minime di presenza femminile all’interno degli organi politici istituzionali e non.  La domanda che ci facciamo è se sia davvero questa la strada giusta per raggiungere una reale parità dei sessi pienamente rispettosa dell’essere donna e del pubblico interesse ad avere istituzioni che funzionano. Pierre Bourdieu, nel suo libro: “Il dominio maschile”, afferma che occorre smontare i meccanismi del potere maschile dove i dominanti si trasmettono i loro privilegi per generazioni. L’ordine delle cose è una costruzione mentale, una visione del mondo con la quale l’uomo appaga la sua sete di dominio che si può benissimo cambiare. Una visione talmente esclusiva che le stesse donne, che  ne sono le vittime, l’hanno integrata nel proprio modo di pensare e nell’accettazione inconscia della propria inferiorità. Istanze superiori quali la chiesa, la scuola, lo stato sono responsabili del perpetrarsi di rapporti di forza squilibrati tra i sessi e in ultima analisi del dominio maschile. Perché dobbiamo considerare una società organizzata per quote: tanti bianchi e tanti neri, tanti uomini e tante donne, tanti del nord e tanti del sud e via discorrendo? Non dobbiamo piuttosto lavorare per costruire una società basata sull’individuo e sul merito, una società che prescinda dal sesso e punti invece sulle reali capacità degli individui?  Non serve legalizzare quote di presenza femminile per scopi propagandistici. Vanno bene anche giunte composte esclusivamente di uomini come avviene in certi comuni calabri o fatte di sole donne come a Sant’Agata Bolognese; purché amministrino al meglio. La legge sulle quote rosa è patetica, sembra un contentino dato alle donne, un gettare del fumo negli occhi della gente, tanto per farsi belli. Tanto il maschio conserva intatto  il  suo potere affidando alle donne  solo incarichi di secondo piano, come  alle pari opportunità, al turismo e spettacolo o all’allestimento della festa della parrocchietta. Ora mi spiego perché la scelta delle ministre viene fatta tra le ex-letterine o le ex-passaparoline. Vestite tutte uguali, con le facce tirate, sembrano delle barby che hanno appena fatto il tagliando alla Mattel: una pompatina alle labbra, un’altra alle chiappe e vai! Fanno davvero una bella presenza se inducono il premier  a dire che le sposerebbe tutte!  La valorizzazione del patrimonio al femminile del nostro paese si persegue non approvando queste leggine di facciata, ma lavorando piuttosto per realizzare cambiamenti strutturali della società. Equiparare l’età pensionabile di uomini e donne va anche bene, ma alla stessa mansione sia corrisposto uguale compenso, senza storcere il naso se a svolgerla possa essere una donna. Va intrapresa, ad esempio, una politica che sollevi le donne italiane dal compito esclusivo di pulire il culo a vecchi e bambini e va dato sostegno a quelle famiglie dove la donna è costretta, al mattino,  a lasciare la casa diretta in ufficio. Vogliamo sperare che le quote siano solo un primo passo per abbattere le tante discriminazioni che ancora si consumano in questo nostro sgangherato Paese.
Buona vita!
maestrocastello 

domenica 10 luglio 2011

Lu 'mpagliasegge.


L’industrializzazione convinse il contadino pugliese degli anni ’60 a deporre la zappa ed indossare la tuta da metalmeccanico, un lavoro che gli permetteva di sfamare finalmente la sua numerosa famiglia che, per il momento, restava al paese; ma presto lo avrebbe raggiunto  nella inospitale Torino. La terra non la voleva lavorare nessuno, anche se i “ciao né”, quando tornavano al paesello, facevano incetta  di vino buono, insaccati, pomodori seccati sui tetti e origano campagnolo. Riempivano fino all’'impossibile la loro centoventotto fiammante di tante leccornie che avevano costituito la loro alimentazione di una vita e, con la macchina carica, tornavano a fare i terroni a Torino. Presto i mariti avrebbero reclamato le mogli, i fratelli fatto arrivare gli altri fratelli; così le fabbriche si riempirono e i paesi  del sud si svuotarono. Paesi sperduti furono abitati solo da vecchi che si ostinavano nell’andare in campagna a zappare vigne che  morivano di inedia assieme ai loro padroni e invecchiavano peggio di questi. Tanti mestieri  che movimentavano un tempo  la vita di un paese andarono presto in disuso. Non si aggiravano più  per le strade ‘mpagliasegge, stagnari, ombrellari, ammolafuorbece, castagnare, cravunieri, nè venditori di sapone. Non si udiva più la voce impostata del banditore che diffondeva dalla piazza al castello  per dare l’avviso che stavano togliendo l’acqua in paese. Un mestiere in particolare mi affascinava più degli altri ed era l’impagliatore di sedie, detto appunto,” lu ‘mpagliasegge”. Una volta l’arredamento delle case era costituito di poche cose: la cascia che conteneva la biancheria(la dote), il letto così alto che ci voleva la scala a salirci, il comò, la tavola e tante sedie, tutte rigorosamente coperte in giunchi di paglia. Era un orgoglio dei grandi, quando entrava l’ospite in casa, dire al figlio :”Giovanni, prendi una “seggia” alla commare!”; magari era una sedia tutta sfilacciata, ma la casa perlomeno ne era provvista.  Il continuo utilizzo causava spesso la rottura del “cuoscio” o seduta che era fatta di paglia  e che , una volta rotta, coprivano con una tavoletta di legno, in attesa che passasse lu ‘mpagliasegge a ripararla. Arrivava quest’omino con la bisaccia a tracolla, piena di giunchi  di diversi colori,  che lavorava all’aperto e magari fischiettava ed io mi affascinavo a studiarne tutte le  mosse certosine. La fabbricazione manuale delle sedie rappresentava una vera e propria arte, diffusa nei paesi montani, data la maggiore facilità a reperire le materie prime: il legno, soprattutto il faggio, e i giunchi di paglia. Lu ‘mpagliasegge le realizzava anche nuove le sedie, ma, cosa importante, data l’impossibilità di acquistarne di nuove,  riparava sedie vecchie per un prezzo che anche mia madre poteva pagare.  Egli foderava pure bottiglie e damigiane spagliate, allo scopo di proteggerne il vetro. Le sedie coi giunchi sfilacciati erano anche il simbolo di condizioni economiche abbastanza difficili. Oggi che sono mutati tanti mestieri, che le nostre sedie non sono più sfilacciate; le condizioni economiche sono tornate come quelle di allora.
Buona vita!
maestrocastello.

mercoledì 6 luglio 2011

la scuola è in castigo!


Questa volta la scuola italiana è finita dietro la lavagna. A darne l’allarme è l’unione degli studenti che, riportando i dati di Censis e Save the Children, parlano di circa 800 mila giovani italiani (tra i 16 e i 24 anni) che hanno abbandonato gli studi prima della loro naturale conclusione negli ultimi sei anni. Non siamo proprio gli ultimi della classe, ma poco ci manca. Se la media europea, per quanto riguarda la dispersione scolastica, si attesta al 14,4 per cento; noi siamo quasi al 20 per cento; appena prima di qualche altro Paese. Ripetute bocciature, frequenza discontinua, cambi di classe o di scuola sono i motivi principali che spingono ragazzi e ragazze appena adolescenti ad abbandonare la scuola superiore e qualsiasi opportunità di formazione, anche professionale. Questo fenomeno oltre che rappresentare un grave problema economico, è anche un serio problema sociale. La sfiducia dei nostri giovani verso la scuola è figlia anche di quella dissennata politica dei tagli che è stata praticata negli ultimi anni nei confronti della scuola pubblica. Questa politica scellerata porta disoccupazione, dispersione, criminalità, disagio sociale per milioni di persone e lede la possibilità di migliorare le condizioni di chi vive nel nostro Paese. Ha ragione da vendere il rapporto Censis quando osserva che gli italiani sembrano sempre più imprigionati al presente. L’abbandono, infatti,  è soprattutto psicologico, legato alla ricerca del risultato immediato.  La scuola è per definizione l’investimento a lungo termine di una società, invece in Italia sembra che la scuola non interessi a nessuno e una buona fetta dei giovani non lo ritiene un investimento utile. E questo sì che è grave! L’istruzione rappresenta il migliore investimento di una nazione per le generazioni future e questo l’hanno capito governi illuminati come Stati Uniti e Germania che, nonostante la crisi generale, hanno investito maggiormente su istruzione e ricerca. Come dare torto ai nostri giovani quando vedono che i loro coetanei più virtuosi, pur avendo terminato brillantemente gli studi, restano poi precari fino cinquant’anni? Il 30 per cento di disoccupazione giovanile è  storia recente di questo nostro Paese. Sono troppi i ragazzi i Italia che non studiano e non lavorano e restano sospesi nel limbo della società, trasformandosi da risorsa in pericolo. Manca, da noi, una politica seria in direzione di chi si ammazza sui libri. Tutto il fango gettato sulla scuola per giustificare i tagli di spesa ha screditato e indebolito un settore, quello dell’istruzione, già in forte crisi. Sappia il ministro Gelmini che la scuola del rigore non porta da nessuna parte e abbattere gli investimenti, la partecipazione degli studenti non fa che allontanare di più quei soggetti a rischio. La scuola pubblica deve poter essere scuola di tutti, che deve essere in grado di accogliere gli  studenti di ogni estrazione sociale e portare tutti indistintamente alla valorizzazione delle proprie capacità, senza lasciar indietro nessuno.
Buona vita!
maestrocastello