domenica 29 gennaio 2012

Manca il quarto per una partita a tressette.


Rocco ce l’ha fatta, Rocco è tornato al paese. Ora s’aggira come un automa fra strade ammalate di noia. Ombra fra le ombre, Rocco è a chiedersi che fine hanno fatto gli amici di un tempo. Una vita a progettare questo ritorno e mai credeva di trovare un paese svuotato, abitato solo da cani randagi e bottiglie di plastica davanti alle porte.  A custodire l’interno delle case ci sono i vecchi  che hanno assunto la fissità delle cose: la sedia, la  parete, il vecchio; non distingui più chi è cosa e chi è persona. Rocco è fermo agli anni sessanta, anni di boom economico; quando la piazza si gremiva di gente e non solo per la festa del santo patrono. Nel linguaggio di chi è rimasto avverte la solitudine  e lo capisce dai continui riferimenti alla città più vicina, dove i compaesani si vantano di andare a fare gli acquisti importanti. Come se abitare al paese rappresentasse una colpa. Il suo, d’altronde, è un paese bellissimo, tutto in pietra; ci sono case da sogno, ma nessuno ci fa più ritorno. Ora la gente insegue mete lontane, cerca l’America altrove e non s’accorge di averla già a portata di mano. Qui si respira l’aria pura di alta montagna che in città te la sogni. In fabbrica, Rocco  s’ammazzava di fatica tutto il giorno, nel suo paese d’adesso è tormentato dalla noia. Niente scuola, niente ufficio postale e niente  negozi: passa un ambulante a portare il pane ogni due giorni e un altro la frutta, una volta a settimana. Arriva il  prete dal paese vicino, solo quando c’è un funerale. Pur di parlare con qualcuno, Rocco  ha fatto amicizia con due tizi ed uno  gli sta pure antipatico; ma lui sa che l’antipatia è un sentimento che non si può permettere in questo contesto.  Insieme aprono il circolo e manca sempre il quarto per una partita a “ scopa” o “tressette”.  Che tristezza vedere, dove prima era tutto un giardino, uliveti e frutteti all’abbandono. Nessuno fa nulla per impedire di fuggire alla gente che sa ancora vivere nel proprio paese. Rocco ha radici contadine ed ha rianimato un terreno di suo padre che era incolto da anni: lo zappa, lo semina, lo annaffia ed è felice come un tempo. Parlando al telefono col figlio, gli dice che ha appena seminato i ceci. “Ma come crescono i ceci, papà, sottoterra?” è stata la sua domanda. “Poveri noi, chissà cosa s’immagineranno i figli dei cittadini! ” s’è detto Rocco, “Forse ho sbagliato tutto, forse non sarei mai dovuto partire”.    Ma scaccia subito questo pensiero, appena ripensa alla fame di un tempo e poi, s’è fatta l’ora di andare ad aprire il circolo. Ci vorrebbero tanti altri Rocco per ridestare questi paesi, dove tutto è cambiato e non è cambiato niente. Rocco è per strada e già sa che, svoltato l’angolo, troverà i suoi amici e apriranno il circolo e mancherà sempre un quarto per una normale partita a tressette.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 


Buona vita!
maestrocastello

venerdì 27 gennaio 2012

Per riflettere e tenere bene a mente.

A scuola mi avevano fatto credere che noi italiani c’entrassimo poco col razzismo, poi ho capito che, se anche se non lo abbiamo praticato come i tedeschi; lo abbiamo quanto meno avallato. Ho scovato sul web un dettato sul razzismo italiano, tratto dal quaderno di un alunno di Monza, anno scolastico 1938-’39 che vi propongo:.
Dettato: Il razzismo italiano
"Si tratta di una battaglia ingaggiata dal Fascismo per la conservazione e l'integrità della razza italiana. Noi della penisola apparteniamo al ceppo ariano, discendendo dalle popolazioni migratrici asiatici degli arii.
Attraverso i secoli, le popolazioni italiche si sono nuovamente e particolarmente plasmate, assumendo caratteristiche che oggi le differenziano da tutte le altre popolazioni del mondo.
Gli hanno dato alla civiltà poeti, artisti, scienziati di tale qualità e in tale misura da essere oggi invidiati da tutti gli stranieri. La fierezza che noi sentiamo per questo, completa lo spirito o razzismo che oggi il Fascismo ha fatto tempestivamente risolvere.
Il razzismo italiano è rivolto a evitare incroci con le altre razze, specialmente differente colore, conscio che i discendenti di questi incroci appartengono a una nuova razza, moralmente, fisicamente inferiore. Per tale ragione il governo italiano ha emanato leggi che evitano matrimoni con genti di colore, con elementi di razza ebraica e vie subordinate con gli stranieri.
Nei confronti degli ebrei il razzismo italiano non fa una questione di religione, ma una doppia ragione di razza e politica e in quanto di questi affiliati al sionismo internazionale , predicano nei loro pustulati la disgregazione dello stato per il successivo avvento della loro dominazione. Il Fascismo è nato per la lotta contro l'internazionalismo, ciò che giustifica pienamente".

Un bel tema per riflettere e tenere bene a mente.
maestrocastello

mercoledì 25 gennaio 2012

Il bastone parlante.


Sono un bastone che un martedì, fine anni novanta, il mio padrone si comprò al mercato. Da allora sto sempre con lui, come un cane fedele, e la vita va avanti alla meglio. Arranco insieme al mio vecchietto sull’acciottolato di paese. Sono di conforto al suo passo incerto e, insieme,  seguiamo coordinate giornaliere sempre uguali: il dottore, la farmacia, la posta. E’ una vita fatta spesso di silenzio, di abbandono e di indifferenza. Io ci parlo col mio vecchio. Ovviamente, quando nessuno gli presta attenzione. Ultimamente questo capita spesso. Questo capita, dice lui, da quando i paesi hanno smesso di essere comunità, per trasformarsi in meri agglomerati di case senza vita. Il silenzio è figlio dell’abbandono ed è così che il virus dell’incomunicabilità, dalle case vuote, s’è propagato alle persone. Le case abbandonate ci comunicano solo  ricordi e le persone di paese l’indifferenza più totale. Sono solo un bastone, ma credetemi, non vedo mai un giovane rivolgere più di un saluto al mio vecchio; eppure, ne avrebbe di cose interessanti da dire. Per ogni società del passato l’anziano ha rappresentato una risorsa, per la nostra, spesso diventa pattume. Questi ragazzi che hanno mezzi incredibili per comunicare, ma hanno poco da dirsi!  Oggi si gela dal freddo, ma lui è voluto uscire lo stesso; dice che un paese non può fare a meno della neve, del gelo e del vento. Dice che non teme affatto il gelo dell’inverno ; ma ciò che gli fa più orrore è l’indifferenza della gente. Parola di bastone!
Buona vita!
maestrocastello

lunedì 23 gennaio 2012

Apprezzatemi adesso, eviterete la coda.

 Da "Il guardiano del faro" blog
La storiella: Un grande Re arabo era sordo, o almeno era quello che pensavano tutti.  Un giorno che stava attraversando le stanze del palazzo reale, fu attratto dal ronzio di una mosca che si dibatteva tra i fili di una ragnatela. Più la mosca si muoveva e maggiore era la morsa del ragno. Quando la mosca realizzò che conveniva star ferma, il ragno fece un guizzo in avanti e il ronzio si spense. Un giovane soldato  che aveva notato la scena disse: "Maestà, come avete fatto ad avvertire il ronzio che neppure io avevo avvertito da più vicino? Il vostro udito sembra migliore del mio; eppure tutti vi chiamano “il sordo! “  Il Re rispose: " Sei un ragazzo intelligente, soldato, credimi, é meglio essere considerati sordi che dover ascoltare vuote lusinghe. Vuoi sapere come ha avuto inizio la mia sordità? E’ cominciata un giorno che mi accorsi che coprivano con i complimenti ogni mia manchevolezza. Come quella mosca, ero intrappolato in una ragnatela di adulazioni e falsità che stavano peggiorando sia il carattere che il mio giudizio. Feci credere alle persone che non ero più in grado di udirli e loro smisero poco alla volta di tentare di influenzarmi con le lusinghe. Le persone che si riuniscono in queste sale, pensando che non possa sentirli, non hanno più paura a parlare liberamente delle mie colpe. Così, se non sono contento di quanto dicono di me, cerco di cambiare il comportamento che ha provocato le loro parole. La sordità mi è stata molto utile, mi ha salvato per tutti questi anni dai vizi che accompagnano la vanità. Sono divenuto una persona migliore. Potresti farlo anche tu un giorno, ragazzo mio;  non lasciare che i fili delle lodi ti attirino in una spirale senza fine.” 


Spunti per riflettere : L’adulazione è sorella gemella della ipocrisia. Quando  incensi troppo qualcuno, dici qualcosa che in fondo non pensi, ma che serve a procurarti la benevolenza di chi potrà esserti utile domani o per fare carriera o per raggiungere un qualsiasi altro traguardo al quale sei interessato. L'adulazione è il passe-partout che ti consente di entrare nelle grazie dei vanitosi e questo lo sai bene. A chi non piace essere adulato. E a te piace moltissimo; ami perfino le lodi che sai non essere sincere!Sai bene che farsi adulare è da sciocchi, ma il guaio è che trovi sempre qualcuno più sciocco di te che ti adula e ne godi. Ami solo chi ti adula; ma poi rispetti chi t'insulta.  Forse, è perché sai bene che le critiche giuste ti aiutano a crescere, a migliorarti come persona. Forse, è perché sai che  troppa lode può risultare anche un'offesa: se vuoi offendere un avversario, lodalo a gran voce per le qualità che gli mancano. Allora, dai il giusto valore ai complimenti che ti vengono fatti davanti, ma apprezza maggiormente quelli che vengono fatti a tua insaputa, sono più sinceri. Se occorre, sii sordo come quel Re, presta ascolto alle tue manchevolezze e farai di te una persona certamente migliore. Buona vita! maestrocastello                                                                                                                                                                                                                 
  .                           
                                                                                                          


sabato 21 gennaio 2012

Un soldo risparmiato è un soldo guadagnato.


Se è vero che la crisi globale rischia di rendere tutti più poveri, l’inquinamento e lo sfruttamento ad oltranza delle risorse naturali stanno minacciando il nostro futuro.  Abbiamo avuto un cattivo approccio alla natura e sarebbe tempo di rieducarci ad essa come figli e non come predatori. Abbiamo mutato la Terra in un letamaio, l’abbiamo sventrata, ridotta in brandelli; ed ora ci sta ripagando della stessa moneta. Dovremmo ricominciare a piantare alberi, come facevamo da bimbi; dopo che ne abbiamo fatto scempio, per dare ascolto alla sete di modernità che ora ci sta sotterrando sotto una coltre di veli, sedimentazioni e polveri sottili. La prosperità degli anni sessanta è stato solo un abbaglio: la ricchezza, testimoniata dall’aumentata domanda dei beni di consumo, ha lanciato lo sprint alla società dell’ “usa e getta”, in una volata senza fine. Il tutto a rate  o con carta di credito, per acquistare beni di consumo pur non avendo il denaro; sono state un modo sicuro per ipotecare le nostre esistenze. La televisione, poi, è stata la cattiva maestra di questi anni che ha catapultato le nostre vite in uno spot collettivo e la nostra casa ideale è diventata quella del Mulino Bianco. Ora c’è crisi e la crisi, come s’è visto, la pagano sempre gli stessi. Molti di noi sono contrariati non tanto perché hanno paura di non farcela; ma perché devono rinunciare alle loro consolidate abitudini. Una sicura via d’uscita per gente come noi è evitare gli sprechi. Lo spreco è diventato il nostro stile di vita che possiamo correggere con efficacia e leggerezza, cercando di evitarlo anche attraverso i piccoli comportamenti quotidiani. Provando, per esempio, a non sprecare beni materiali, quali: cibo, acqua, oggetti, soldi e risorse naturali; ma anche beni immateriali, quali: salute, tempo, talento e, innanzitutto, la vita. Se facciamo solo  il conto di quanti cellulari abbiamo dismesso ed ora stazionano inutilizzati nei vari cassetti di casa, possiamo avere un’idea di quanto spreco abbiamo prodotto. Negli Stati Uniti si buttano ogni anno 130 milioni di cellulari, ma noi non siamo da meno. Ci sono infiniti modi per risparmiare e le persone più grandi se lo ricordano bene. Quanto cibo ancora buono finisce nel pattume? Recuperare gli avanzi per tradurli in nuove pietanze non sarebbe una cattiva idea. Quando una cosa non funziona più, anziché buttarla, dobbiamo riprendere la sana abitudine di ripararla, come facevamo un tempo. Sono buone abitudini di tenere acceso lo scaldabagno di notte, quando l’energia costa meno, controllare la pressione delle gomme dell’auto, per risparmiare sul gasolio, portarci da casa il sacchetto della spesa, fare attenzione alla data di scadenza dei prodotti (una mozzarella se ben conservata, può durare alcuni giorni dopo la scadenza), le offerte di merce fresca,  se non necessarie, diventano uno spreco. Potrei continuare, ma una volta entrato nell’ottica del risparmio, il nostro cervello si attiva da solo. Una volta queste cose le facevamo naturalmente, quando sapevamo camminare, conversare e conservare. Dobbiamo solo riappropriarci delle nostre abilità di un tempo e  solo quando gli auguri all’amico torneremo a farglieli a voce, senza bisogno di ricorrere al computer; significa che avremo riacquistato il vero senso delle cose.
Buona vita!
maestrocastello




mercoledì 18 gennaio 2012

Perché non nevica più?


Sui campi e sulle strade/ silenziosa e lieve/volteggiando, la neve/cade.
Danza la falda bianca/nell'ampio ciel scherzosa,/poi sul terren si posa,/stanca.
In mille immote forme/sui tetti e sui camini/sui cippi e sui giardini,/dorme.
Tutto d'intorno è pace,/chiuso in un oblìo profondo,/indifferente il mondo/tace.
(Ada Negri)

Una volta, questa poesia veniva insegnata alle elementari, adesso non più. Una piccola perdita che si aggiunge alla lenta scomparsa della poesia nelle nostre scuole. La neve sembra che in effetti purifichi dove si posa... tetti, camini, giardini. ecc... ma raramente si posa sulle persone; affinché le renda pure, togliendo quell'indifferenza e tante altre negatività, il male e la cattiveria che le sovrasta. Quand’ero bambino, aspettavo la neve con l’ansia di tutti i bambini che sono desiderosi di non andare a scuola. La neve era l’unica alternativa alle malattie per restarsene a casa. Quando nevicava ero contento per diversi motivi. Amavo quell’atmosfera ovattata in cui cadeva il mio paese, senza rumori eccessivi; quello spirito di solidarietà che sgorgava fra le persone: io ti aiuto a mettere al riparo la catasta di legna, per non farla bagnare; tu mi dai una mano a spalare la neve davanti all’ uscio di casa e tutto avveniva in modo tacito e spontaneo. Era bello vedere un paese che, nel momento di bisogno, si scopriva comunità. La nostra miseria di allora era solo materiale, perché avevamo scorte spirituali per lunghe invernate. Il povero, si sa, dona perché sa bene quant’è brutta la miseria in se stesso e non vorrebbe rivederla sul viso di un altro. Non mancava volta che mia madre Letizia, al ritorno dai campi, di tutta la frutta che aveva riportato al paese, ne faceva porzioni che regalava a tante altre famiglie povere come la nostra. Dicevo, riguardo alla neve, che mi piaceva che la vita si fermasse, che andasse via la corrente, che rimanessimo accanto al camino, al chiarore di una sola candela accesa e nonna Mariannina che “riceva li cunt”. Raccontava di streghe, di orchi, di bimbi abbandonati nel mezzo di un bosco e noi bambini che ci stringevamo l’uno l’altro, per la paura che si andava creando. Beati quei tempi che i bimbi, non ancora contagiati dalla televisione, facevano vere scorpacciate di fantasia. Beati i tempi quando i giocattoli, i bambini, se li costruivano da soli ed erano il frutto della loro immaginazione; giocavano coi sassi, coi semi di zucca, con semplici pezzi di legno; tutto era utile al gioco: cerchi, cuscinetti di auto, bottoni o semplici  asticelle di legno. Nevicava e le stradine di paese pullulavano di bimbi poco vestiti, poco nutriti; ma ugualmente felici di rotolarsi in mezzo alla neve. Perché non nevica più? Forse perché ci sono più case che abitanti e i bimbi non ci sono e quando ci sono, non hanno  più il tempo di fare pupazzi di neve. Ora della neve conserviamo solo il ricordo. E poi, nevicherebbe per niente, perché i paesi sono caduti tutti in un letargo profondo e si rianimano solo nel mese d’agosto e quando c’è un funerale. La fabbrica del terremoto ha rifatto il look alle nostre case e le ha trasformate in tanti cofanetti, dove sono custoditi i ricordi dei bei tempi, quando anche la vista della neve dava gioia ed avevamo un’altra idea di stare al mondo.
Buona vita!
maestrocastello

martedì 17 gennaio 2012

Profumi di Sardegna.

Foto di Chritian Camana

I ricordi del mio primo contatto con l’isola sono legati alla visione surreale del suo paesaggio che mi rapiva in un crescendo di emozioni, man mano che passavo ai fotogrammi successivi: distese di verdi licheni, scorci di mare esilarante e sassi ovunque e dalle forme più inconsuete.
Quello che proprio non riesco a cancellare dalla mente sono i profumi legati a questa terra: odori forti di mirto, di finocchio selvatico, di terra bruciata dal troppo sole e di armenti perennemente assetati. E che dire degli incendi, di cui avevi sentore anche a chilometri di distanza e rendevano acre anche l’aria? Ma l’odorato si esalta in cucina: qui la fragranza, l’intelligenza, la versatilità e la natura esotica di una cucina di veri contadini e pastori produce capolavori per palati in vena del vero mangiare. La fragranza di ingredienti ancora naturali che, mi dicono, conservano ancora tutto il loro sapore di un tempo, con metodi di cottura tramandati e religiosamente praticati tutt’ora; partoriscono cibi dai sapori che il palato non sempre riesce a raccontare. Il solo problema lo rappresenta il profumo maschio di un vino troppo energico per chi ha poca dimestichezza col bere; ma non è questo il mio caso!  E che dire dei dolci? La pasticceria sarda ti delizia con sapori sempre decisi, a base di mandorle, di miele, di canditi ed uva passita. La fantasia di questa gente sforna dolci dai nomi più inconsueti: aranzada, cozzuleddas, maringosos, papassinos, seadas, torroncini pruneddu, sospiri e tant’altro.
Il profumo mio preferito lo emana proprio il mare. Mi piace anche il sapore del cacio pecorino, della ricotta piccante ed il profumo che sprigiona la pelle cotta dal sole; ma non disdegno qualche buon bicchiere di vino : prima un bianco Vermentino, per gustare meglio le pietanze, a base di  pesce, di questa signora cucina isolana e tanto Cannonau, per scordare le tante facce da pirla che ho lasciato al di là di questo meraviglioso mare verde-bottiglia. 
Buona vita!
maestrocastello 


(tratto da "Chiuso per ferie" di Giovanni Castello  del 1998- inedito)


“……al di là  di questo mare verde - bottiglia ho lasciato le apprensioni che pian  piano mi  stavano consumando l’anima e  finalmente sono a bordo della mia fantasia a disegnare traettorie di respiro che mi permetteranno domani di riprendere il cammino di tutti i giorni. Ogni tanto avverto un urgente bisogno di allontanarmi da me stesso e di guardarmi da lontano per vedere di quanto avevo deviato la rotta dal mio naturale cammino. Non è semplice combattere questa vita e rimanere indenni dal pericolo della quotidianità che uccide.  L’uomo senza la fantasia non riesce proprio a volare!” ("Chiuso per ferie" 1998)



domenica 15 gennaio 2012

Ti hanno mai chiamato quattrocchi?

disegno di Daniele Genchi.

Quanti di noi vanno orgogliosi del nome, o, peggio ancora, del nomignolo che portano? Pochi, penso, anche perché non siamo noi a sceglierli, ma ci vengono imposti da altri; siano essi genitori (come nel caso del nome), oppure amici e conoscenti, (come nel caso dei vari nomignoli che ci appioppano con malizia). E pensare che certi genitori impiegano mesi nella scelta del nome per il figlio che dovrà nascere e al momento del parto, spesso,  non si sono ancora decisi. Si comprano libri specifici, fanno le prove a vedere se il nome scelto suona bene vicino al cognome: nome corto e cognome lungo e viceversa. In seconda elementare, il maestro ci ammorbava per farci entrare in testa la differenza fra nome proprio e nome comune: “papà, nome comune (uno dei tanti); mentre Antonio è nome proprio, perché si tratta proprio del nome del tuo di papà (uno fra tanti)”.  Il maestro, era lui che non capiva che certi concetti, anche se sembrano scontati per i grandi, non sempre vengono recepiti dai piccoli. Per fortuna che ciò che la scuola non spiega, poi la vita te lo spiega benissimo. L’esigenza di passare dal nome comune al proprio, lo capirai per strada, giocando a pallone; quando non vuoi essere uno dei tanti, a cui nessuno passa la palla; ma desideri essere chiamato Antonio, uno affidabile del gruppo che se gli fai un passaggio, può metterla dentro.  Se poi ti chiamano Tonino; ancora meglio: vorrà dire che ti vogliono anche bene. Ti accorgerai presto che ciascuno di noi col solo nome e cognome non ci fa nulla, non va da nessuna parte e deve avere anche un nomignolo di riconoscimento, un nome di battaglia e che a trovartelo ci penseranno gli amici che lavorano d’inventiva; soprattutto sui tuoi difetti! A scuola ti chiameranno quattrocchi ( se porterai gli occhiali), cicciabomba (se sarai grassottello),  Dumbo (se avrai le orecchie sporgenti) e  secchione (se esagererai con lo studio). Per quanto mi riguarda, i compagnetti avevano lavorato sul mio cognome (Castello) e mi apostrofavano: "castieggr scarrupète" (castello diroccato) e naturalmente seguivano un sacco di risate! Sfogliando i libri di storia ti accorgerai che nemmeno i personaggi più importanti sono rimasti esenti dal loro bel soprannome:”l’Africano”, “il Temporeggiatore”, “il Breve”, “il Magnifico”, “Pippetto”, “Franceschiello” e via discorrendo. Bisogna riconoscere che il nomignolo è anche utile a far capire subito di chi stiamo parlando. Se oggi vi dicono: “il cavaliere”, “il trota”, mitraglia”; sapete subito chei stanno parlando dell’ex premier,del figlio maldestro di Bossi e di Enrico Mentana. Poi ti trasferisci nella capitale, dove ti osservano, ti scattano una sola istantanea e ti appiccicano il tuo bel soprannome, col quale sarai riconoscibile da quelli del bar che frequenti. A Roma c’è solo da scegliere tra un vastissimo campionario: “belli capelli, er pomata,er braciola, er roscio, er lumaca, er bruschetta,  er pecora, er biscìa, er sola, er cipolla, er patata, er lazziale, er caciotta e potremmo andare all’infinito. Fra me, però, sorridevo; perché gli amici del bar di Cinecittà mai pensavano che provenivo da un paese della Puglia, dove per riconoscere uno, devi dire per forza il suo soprannome; altrimenti non ti capisce nessuno.  Non sapevano gli ingenui che a Sant’Agata di Puglia i soprannomi sono piuttosto coloriti: piscia liett (piscia a letto), cacalerta(caca all’impiedi), cacafave (caca le fave), Rocc cess (nel senso di gabinetto), fica moscia (fico non più maturo, o meglio, persona lenta), piglian’ngule (che non si traduce letteralmente e sta a significare persona che subisce). Oggi, nel web, è in uso il nik name o nome di riconoscimento che usano in tanti, come D'Artagnan, Barone Rosso , Zorro, o come il mio che è semplicemente maestrocastello. Fanno eccezione solo gli anonimi che non si firmano, sono in tanti e  si sentono in diritto  di criticare (non sempre educatamente) chi invece ci mette la faccia;  ma questa è un’altra storia.
Buona vita!
maestrocastello”

giovedì 12 gennaio 2012

La critica è per gli uomini maturi.

MAESTROCASTELLO  VISTO DA DANIELE GENCHI



La storia
 
Plinio il Vecchio cita in “Naturalis historia” che Apelle di Coo (proprio quello della palla di pelle di pollo, per intenderci) stava eseguendo un dipinto, quando un calzolaio (sutor) gli si avvicinò e gli segnalò che nel dipingere una scarpa, più esattamente un sandalo (crepida); aveva commesso un errore. Valendosi del suggerimento tecnico ricevuto, il grande Apelle che al tempo era considerato il maggior pittore mai esistito, grato ed umile, corresse l’errore. Il ciabattino, tronfio del fatto che Apelle avesse accolto, di buon grado, i suoi consigli, cominciò però a formulare osservazioni anche su altri particolari (vesti, espressioni del volto, ecc.), indisponendo a tal punto l'artista che, per zittirlo, lo apostrofò in questa maniera: “Sutor, ne ultra crepidam” (Ciabattino, non andare oltre le scarpe!). Cosa sta a significare questa espressione latina? Se non siamo ferrati su di un determinato argomento, sarebbe meglio tacere!                                                                  

Le nostre riflessioni 
Apelle ci dimostra che, oltre ad essere stato un grande artista, era anche un grande uomo; perché sapeva accettare le critiche quando le riteneva giuste. Come reagiamo noi, invece, di fronte ad una critica? Diciamo come Cetto La Qualunque: “me nne fotto!”, oppure, aspettiamo proprio le situazioni critiche, come fa la vita, per rivelare il nostro lato più brillante? Diciamoci la verità, la maggior parte di noi si mette sulla difensiva e contrattacca, spesso, in modo ignorante. Ma sono queste le reazioni migliori? Quelle più efficaci?  E’ vero, le critiche possono far male e demoralizzare. Anche i rimproveri, però, hanno il loro risvolto positivo, possono rappresentare delle ottime occasioni per migliorare. Molti si arrabbiano quando vengono criticati, reagiscono a caldo e fanno disastri e poi si dispiacciono  per quanto hanno detto. L’approccio migliore ad una critica sarebbe quella di farla freddare, per dare tempo alla logica di venirci in aiuto. Vediamo anche il lato positivo della critica, non consideriamola  solo come l’intenzione di qualcuno di ferirci. Cerchiamo di vedere anche chi critica in onestà. In ogni critica c’è sempre almeno un granello di verità e dobbiamo considerarla come un'opportunità che ci viene offerta per migliorare; perciò dovremmo ringraziare piuttosto chi ci ha criticato.  Lo so, è facile.a dire e non tutti ne siamo capaci. Se sapremo imparare dalle  critiche che ci vengono rivolte, avremo poi un atteggiamento diverso rispetto a quelli  che ci criticano. Rispondere all’insulto con un insulto è porsi al livello basso del tuo avversario, come mettere i piedi in una pozzanghera, col rischio sicuro di infangarsi le scarpe. “Solo gli animali non fanno domande e non muovono critiche”, come dice G. Eliot. Troppo comodo non essere mai giudicati! Pensate che noia, se nessuno ci muovesse una critica! Ci sarebbe una continua falsa piaceria e nessuna verità .Un buon esercizio per accettare meglio le critiche consiste nel fare autocritica, nel prendersi in giro da soli; farsi fare la caricatura e riderci sopra insieme ad un amico.Bisogna imparare ad essere auto-ironici, a comportarci da persone mature, perché la critica è  parte della vita. Il poeta Giosuè Carducci diceva che la critica è per gli uomini maturi, mentre gli altri sanno solo arrabbiarsi.
Buona vita! 
maestrocastello

sabato 7 gennaio 2012

Il mio paese era in coma e nessuno mi aveva avvertito.


Fummo costretti a fuggire dai nostri paesi, come ladri  nella notte e su corriere impossibili. Lo sballottamento del mezzo ci fu d’aiuto a ricacciare indietro tutto il magone conseguente al distacco. Lasciammo gli anziani genitori a guardia delle nostre radici, finché fu possibile e finì che, un giorno, sradicammo anche le loro vite genuine, per ripiantarle  in squallidi appartamenti  di città. Non portarono  frutto, perché non attecchirono mai. Come potevano , d’altronde,  rifiorire in modesti vasi di terriccio, piante aduse a germogliare in aperta campagna? So perfino di qualcuno di noi che chiudeva a chiave l’anziana madre  nell’appartamento e si recava sul posto di lavoro. La solitudine, si sa,  porta presto alla morte che resta l’unica alternativa per un vecchio che agogna solo che lo riportino al luogo di partenza.  Quanti  ne abbiamo riportati indietro al paese, in casse di faggio, ed ora, insieme ai ricordi, custodiamo di loro anche soverchi rimpianti. Alla fine, che ci rimane di loro?  Lapidi, spesso, senza un fiore e case-museo, ereditate al paese, immerse nel silenzio, che sembrano  eternamente in posa per una foto di gruppo. Case illanguidite di staticità, mista a malinconia. Ed è così che i paesi si ammalano di vuoto e di silenzio, di vita che non scorre più nelle loro vene e ne rimane qualche traccia solo nei cani randagi che vagano senza cibo e senza padrone e nei panni stesi, in balia del vento che li stressa. E’ questa la sorte della maggior parte dei paesi che popolano l’Appennino Meridionale; sono paesi sotto vuoto, realtà traboccanti di risorse a cinque stelle, con vocazione per i cibi naturali, che si riducono, invece, al preconfezionato, pur di scimmiottare la vita di città. C’è rimedio? Sembra di sì. Un simpatico signore di mezza età, Franco Arminio, poeta, scrittore di svariati volumi e “paesologo”, come ama definirsi, vive  e lavora a Bisaccia di Avellino e da circa quattro anni si reca nei paesini del Sud, con l’intento di rianimarli. “Terracarne”, “Nevica e ne ho le prove”, “Vento forte da Lacedonia a Candela” sono solo alcune delle opere dove Arminio sviluppa le sue tesi. Mi piace questo scrittore che ha fatto visita anche al mio paese, Sant’Agata di Puglia, perché è fluido, lirico, ed essenziale; non dà ricette preconfezionate e lo dice chiaramente, il suo metodo è quello del dialogo con la gente. Sembra un Socrate dei tempi nostri. Lui ama il contatto fisico con le cose del paese, vuole sentirne l'odore, il colore, il sapore, Fotografa tutto e poi ne fa argomento di conversazione con la gente del luogo,Mentre mette in guardia dal mimare il mondo del Grande Fratello, invita chi ha la fortuna-sfortuna di vivere ancora in un piccolo paese come il mio, a riflettere sulle grandi risorse di cui è in possesso e sulla opportunità d’investire tutto su esse, per garantirsi un futuro a misura d’uomo.
 I nostri paesi vanno ripopolati di idee, le persone arriveranno subito dopo.
Buona vita!
maestrocastello

giovedì 5 gennaio 2012

Saisha, una bambina egiziana, ha scritto alla Befana.


Cara Befana, sono una bambina egiziana di 9 anni, mi chiamo Saisha e frequento la quarta in una scuola elementare alla periferia di Torino . Sai bene che  non potrei scriverti e se la cosa arrivasse all’orecchio di mio padre, sicuramente mi picchierebbe duramente. Quando gli ho detto che la maestra ci aveva detto di scriverti una lettera, come compito per le vacanze, lui me l’ha proibito. Dice che noi siamo musulmani e dobbiamo obbedire solo al libro sacro e il Corano vieta di credere  a personaggi come Babbo Natale e la Befana, dice che le persone oneste entrano sempre in casa dalla porta principale. Se qualcuno passa da un’altra parte, dice lui, non ha la coscienza a posto. Dice anche che tu e  Babbo Natale  che scendete dal camino,  non siete persone gradite. Allora ho pensato che potevo diventare di religione cattolica, così non sarei più uscito dalla classe durante l’ora di religione e avrei ricevuto i tuoi regali come gli altri; ma quel maleducato di Federico ci ha preso in giro, a me e alle mie compagne, chiamandoci femminucce che crediamo ancora alla Befana e che la Befana non esiste. Poi ci si è messa  anche la maestra Sandra, lei è quella che insegna religione il mercoledì, quando mi fanno,uscire dalla classe e sto tutto il tempo con la bidella Anna;  lei s’è arrabbiata molto, quando le ho chiesto di parlarmi della befana. “Basta con la Befana: porte aperte all'Epifania che fa gustare la vera gioia cristiana!”. Prima mio padre, poi la maestra Sandra, lì ho capito che con le religioni non avrei avuto scampo. Cara Befana, gioco sempre con una bambina italiana che si chiama Sonia e che è anche la mia vicina di banco e lei ti ha scritto una lettera bellissima che mi ha fatto leggere in segreto, Sonia t’ha chiesto una bambola che apre e chiude gli occhi e dice”mamma ho sonno”; ti prego di portargliela, se no ci rimane male, poverina. Cara Befana, è stata proprio Sonia che mi ha convinta a scriverti. Lei ha detto:”Non dar retta ai grandi, provaci pure tu, può darsi che rimangono dei giocattoli di qualche bambino che ha cambiato casa o che non si fa trovare e la Befana mica li butta? li può dare a te; tanto a lei non interessa di che religione sei”. Sonia è proprio una vera amica, è gentile ed è l’unica che  non mi prende in giro se parlo male l’italiano o se ho la pelle un po’ scuretta.  Mi dispiace proprio quando arriva il mercoledì che c’è religione e  dobbiamo separarci di banco. Se non potrai portare un giocattolo anche a me, non importa. Son già contenta che t’ho potuto scrivere come gli altri della classe; magari , se puoi, porta a Sonia una bambola più grande così possiamo giocarci insieme.
Ciao, Saisha.

mercoledì 4 gennaio 2012

O mio presidente.


La sera del 31, mentre tu parlavi a reti unificate, io ero intento a spizzicare tartine ricoperte di salse troppo sfiziose e confesso che ti ho dato poco retta. Il senso di ciò che hai detto agli italiani l’ho appreso solo il giorno dopo dai giornali, anche se un po’ già lo immaginavo. Ho troppa stima della tua persona. In un momento di grande incertezza, per me resti un sicuro punto di riferimento e faccio molto affidamento su di te. E pensare che se non c’eri tu, la balordaggine dei politici ci avrebbe già scaraventati in fondo ad un burrone. Un comico donna t’ha definito “Napisan”, come se tu fossi un  sapone liquido, mentre  per me sei, piuttosto, come un medicinale, una protezione per lo stomaco; il Lansoprazolo prima della cura Monti. Sai bene che noi italiani medi non ci  tireremo mai indietro, che siamo disposti a fare sacrifici per l’Italia;  purché li facciano tuttii. Non ho paura tanto per me stesso che una pensione l’ho raggiunta, quanto per quei poveracci che vivono nella precarietà più assoluta. Penso a come tireranno avanti nei mesi a venire. Li hai sentiti, presidente, i telegiornali di questi giorni? Quante attività che chiudono ogni ventiquattr’ore? Gli imprenditori che si procurano la morte perché non riescono a garantire il salario agli operai? Un suicidio al giorno tra i disoccupati! Ho timore che, se  non stiamo attenti, tanti vecchietti finiranno per attaccarsi alla cannetta del gas. Tutto ciò, non lo nascondo, mi spaventa parecchio. In un momento di crisi come questo, si sa, i furbi ne approfittano per fare sciacallaggio ed è qui che chiedo il tuo intervento, o mio presidente, di entrare in campo, di essere il nostro Robin Hood. Si parla di fase due o fase di crescita; ma non pensi che la benzina a quota 1 euro e ottanta ci porti dritti a rischio recessione? Va bene tutte queste tasse, ma i tagli dove sono? E’ vera la storia che l’Italia avrebbe ordinato 131 F-35 per 15 miliardi di euro? Per farne che poi? Ma vogliamo scherzare, presidente? Confido su di te. Cos’è questa storia di togliere il contante della pensione ai vecchietti? Metti che tu, presidente,  che vai per gli ottantasette e guadagni 18.000 euro al mese, ne guadagnassi solo 600 e già facessi fatica a prelevarli, una volta al mese, alla posta del tuo paese, ti obbligassero a trasferirli in banca, con un’aggiunta di spesa e costringendoti a prelevarne, a cento a cento, ogni volta (con carta di credito); saresti contento? Quante volte dovresti uscire di casa? Ma quanti favori l’Italia deve fare a queste banche? Non mi dilungo, altrimenti il mio diventa un discorso più lungo del tuo. Mi raccomando, non voglio più vedere la scorta armata sotto casa di Rutelli che non ricopre alcun incarico istituzionale, il cinema, i parlamentari se lo devono pagare da soli, così come facciamo noi mortali, voglio controlli sui prezzi dei generi alimentari, che la gente possa almeno avere la certezza di piatto di minestra tutti i giorni. Confidiamo su di te per riposare tranquilli la sera, senza dover ricorre alle solite 15 gocce di minias.
Con tanta stima e affetto!
maestrocastello