mercoledì 23 maggio 2012

La primavera intanto tarda ad arrivare.

Altro che crisi economica, quello che maggiormente deve preoccupare in Italia è la crisi antropologica. Ci si preoccupa molto del PIL e della perdita dei posti di lavoro ed intanto la morale è diventata un optional e le regole della convivenza civile sono ridotte a materiale da destinare al macero. I ballottaggi di domenica danno la misura esatta di quale sia il rapporto che la gente ha con la politica. Il forte astensionismo va letto come il rifiuto di tanti di continuare ad essere rappresentati da “gente infame che non sa più cos’è il pudore”. “Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!”, continua ancora Battiato nel suo mirabile pezzo: “Povera patria!”, capitani d’industria prestati alla politica che predicano sacrifici mentre banchettano allegramente alla tavola dell’Italia dissanguata dai loro stipendi da capogiro. Pensionati passati per un giorno dalla Camera o dal Senato che costano lacrime e sangue e che, rinunciando ai loro privilegi, potrebbero sanare il bilancio di uno Stato. Segretari di partito che gonfiano i rimborsi elettorali, tesorieri che destinano quei finanziamenti a spese di mogli e figli di segretari di partito. All’estero ancora si chiedono come sia possibile che tanti politici italiani siano accusati di misfatti gravissimi, dagli scandali sessuali alla mancanza di etica pubblica, e rimangano tranquillamente in carica come se nulla fosse? Questi signori hanno contribuito in modo prepotente allo sfacelo dell’Italia con anni e anni di mal governo, l’Italia ha accumulato un debito pubblico che supera quello di Spagna, Grecia e Portogallo messi insieme; essi sono i veri responsabili morali dei tanti suicidi che quotidianamente riempiono le cronache dei giornali, loro e i loro amici banchieri che hanno bloccato ogni tentativo di ripresa imprenditoriale, chiedendo tassi altissimi e consegnando tanti disperati in mano alle finanziarie che sono usurai autorizzati e degli autentici cravattari. Cambierà, cambierà,forse cambierà”, recita sempre Battiato e noi vogliamo sperarlo con tutto il cuore. I problemi si aggiungono ai problemi, le bombe a Genova e Brindisi, il terremoto a Finale, lo spread a quota 430, i partiti che pensano solo a come recuperare il voto dei troppi astenuti e questo governo che è convinto che il risanamento dei conti pubblici attraverso un sistema di tassazione così elevato ed il recupero dell’evasione fiscale possano da soli far ripartire il Paese. Francamente la vedo brutta. La verità è che la crescita reale di un Paese non può essere ideata solo da un gruppo di tecnici, ma necessita di una concertazione della politica sociale e dalla più larga condivisione di percorsi migliorativi e dalla disponibilità a farcela tutti insieme; come succedeva in passato. “Non cambierà, non cambierà, sì che cambierà, vedrai che cambierà”. "Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali, che possa contemplare il cielo e i fiori, se avremo ancora un po’ da vivere" . Nonostante tutto la gente non ha perso completamente la fiducia, anche se "la primavera tarda ad arrivare".

Buona vita!

maestrocastello

giovedì 17 maggio 2012

La messa è finita!

La messa è proprio finita a Sant’Agata di Puglia, paese dell’entroterra della Daunia, ai confini con Campania e Basilicata, arrampicato su di una montagna esilarante che sembra il punto di contatto tra terra e cielo. Se lo guardi di sera, mentre percorri il tratto d’autostrada Napoli - Bari, ti fa tenerezza, pare un presepio vivente con tutte quelle lucine colorate; apposta la regina Paola di Liegi una sera che percorreva l’autostrada ne rimase incantata ed espresse il desiderio di visitarlo. Questa amena cittadina pugliese è composta di case tutte scavate nella roccia, dalla bellezza architettonica incredibile e vanta la presenza di chiese a decine: San Nicola, San Angelo, Sant’Andrea, Sant’Antonio, San Rocco, la Madonna delle Grazie, la Madonna dell’Arco e cappellette varie ; un tempo ognuna aveva il proprio parroco che, fino a non molto tempo fa, celebrava i sacramenti in ogni giorno dell’anno. Quei preti ora sono in gran parte defunti o ultrapensionati e non c’è mai stato il ricambio;  il paese è stato ultimamente affidato alla cura spirituale di due eccezionali frati francescani che officiavano, a turno, in tutte le chiese di questo paese foggiano. In Italia si fa sentire la penuria di preti e la riorganizzazione delle diocesi porta spesso a lasciare piccoli centri senza la presenza fissa di un sacerdote. Il governo taglia insegnanti, uffici postali, servizi di trasporto e la Chiesa taglia sui preti. Ebbene Sant’Agata di Puglia, per ordine scritto del vescovo di Foggia e del Superiore francescano, dal 15 maggio 2012 è senza un prete; in quanto i due frati hanno avuto l’ordine di abbandonare. Sant’Agata è giustamente in rivolta ed alcuni cittadini si sono perfino incatenati nel tentativo di trattenere i due frati che, avendo pronunciato voto di obbedienza, non possono fare altrimenti. La notizia è rimbalzata sulle pagine di quotidiani locali e nazionali e teletrasmessa da “Telenorba”,”TG 3” e “Vita in diretta”; ma sembra non aver sortito ripensamenti da parte delle autorità ecclesiastiche competenti e probabilmente non ne sortirà in futuro.  Anche se la fine sembra ineluttabile, a noi corre l’obbligo di fare alcune considerazioni di merito. Ho visionato il video di commiato del frate-parroco Padre Eugenio e l’ho trovato davvero toccante e mi ha suggerito più di uno spunto di riflessione. Padre Eugenio, il frate che fungeva da parroco, è una persona burrosa, colta, intelligente, umana, ricorda  nell’aspetto Mario Monti, ma più simpatico; in poco più di un anno s’è calato nella realtà di un paese che non era il suo, fino a confondersi e sentirsene parte integrante, ha creato rapporti umani con tutti, ha presenziato in ogni occasione, anche tra strade impervie del paese, ha relazionato bene con i bambini, con i giovani e con gli anziani; insomma è stato il fulcro di questo paese che, attraverso lui, ha conosciuto il Vangelo, senza doversi scomodare a leggerlo. Questi sono i preti veri che piacciono a noi! Bravo Padre Eugenio, lo so che devi andare, ma ti ho visto commosso e combattuto  tra i tuoi sentimenti di uomo ed i tuoi doveri di frate; ti capisco e ti apprezzo. Ora arriverà l’incaricato di turno, quello che  dirà la messa forse solo la domenica a tutto il paese e tornerà ogni volta che muore qualcuno e quella vecchietta del video, rimasta senza nessuno, che viveva solo di chiesa, chi la consolerà? Forse dirà il rosario da  sola  nel chiuso della propria casa, pensando alle parole di Santa Teresa del Bambino Gesù: “Col Rosario si può ottenere tutto, esso è una lunga catena che lega il cielo e la terra; una delle estremità è nelle nostre mani e l’altra in quelle della Vergine” e aspetterà che si compia il miracolo e magari che un altro Padre Eugenio arrivi a Sant’Agata di Puglia.  La domanda che ci poniamo è che se oggi rischiamo di vedere un intero paese senza un prete, cosa succederà fra qualche anno ai nostri figli? Stanno emergendo nuove forme di comunità cristiana, le cosiddette unità pastorali che obbligano a reimpostare tutta la pastorale che coinvolge anche i laici. E’ vero che i laici non possono officiare il rito della Santa Messa e mutare il pane e il vino in corpo e sangue di Cristo; ma sono in grado di compiere tante altre funzioni che ieri erano di esclusiva competenza sacerdotale. Anche in un paese senza sacerdoti non deve mancare l'assistenza agli anziani, il catechismo ai bambini, il conforto a chi è in difficoltà. In questa sofferta fase di transizione, occorre chiederci se i laici cristiani siano pronti ad assumersi le responsabilità che derivano anche da questi cambiamenti. Provvidenzialmente questi cambiamenti possono diventare una occasione propizia per far capire finalmente  le responsabilità che sono  riservate loro perché cristiani battezzati. Dobbiamo però porci alcune domande. Esiste ancora una risorsa sufficiente di cristiani, oppure oltre alla carenza di preti dobbiamo anche riflettere sulla carenza di cattolici praticanti? Paura? In fondo gli apostoli erano dei semplici pescatori e se loro hanno saputo rispondere alla chiamata divina; perché non possiamo farlo anche noi? Da questo dipenderà il nostro futuro di essere dei cristiani e saremo sicuri che un paese potrà pure rimanere senza un prete; ma non resterà mai senza il conforto di Dio.
Buona vita!
maestrocastello

martedì 15 maggio 2012

Disabilità e buon senso.


Siamo onesti con noi stessi ed ammettiamo che ancora nel duemiladodici facciamo fatica ad accettare le diversità, che siano esse fisiche o che riguardino scelte religiose o sessuali diverse dal comune; non fa alcuna differenza. Prendiamo i disabili o comunemente detti handicappati. Quando ci imbattiamo in un posto di parcheggio a loro riservato, rigorosamente vuoto, ed in giro non c’è un posto libero manco a pagarlo oro; siamo presi da pensieri di rabbia: “Guarda questi rompicoglioni, tutte le comodità a spese nostre e nemmeno gli serve; tutto spazio sprecato… tanto è per poco! “ e gli occupiamo il posto; salvo doverlo liberare subito dopo, imbeccati dalla voce della direzione del centro commerciale, dove siamo appena entrati. Il termine “handicap” fu preso in prestito dal mondo dell’ippica ed indica una penalità; ma non piaceva; allora si pensò di sostituirlo col termine “disabile” che è formato da dis + abile, dove dis sta per “diverso”; ma qualche cervellone si svegliò la mattina e ritenendo che dis fosse una parolaccia, decise di ribattezzare il termine con “diversamente abile”. La politica, si sa, spesso  risolve le cose con le chiacchiere, e se la cavò con questo nuovo battesimo, facendo inoltre predisporre qualche scivolo davanti alle scuole e agli uffici pubblici e disegnando rettangoli gialli di parcheggio per gente in carrozzina che nessuno rispetta; ma, allo stesso tempo, taglia i fondi alle famiglie con figli portatori di handicap e non ha educato mai  tutti noi che i cittadini sono tutti uguali, con gli stessi doveri ed uguali diritti e chi è in difficoltà, va messo nelle stesse condizioni di noi così detti “normali”. Si spiega così che quelli che sono dei diritti dei disabili, vengano spesso confusi come  privilegi. Pensate che una persona in carrozzina non preferirebbe di gran lunga poter camminare con le proprie gambe; piuttosto che trovare un posto sempre pronto per poter parcheggiare? Il problema dei falsi invalidi è un’altra cosa, ma non fa parte del post odierno. Dovremmo avere tutti una grande dose di buon senso, abili e disabili. Chi frega il posto riservato ad un diversamente abile, gli nega un diritto sacrosanto e di esempi ne vediamo tutti i giorni; ma assistiamo pure a scene dove la mancanza di buon senso riguarda anche il disabile. A certi non difetta solo il poter deambulare, ma hanno limitato anche il cervello. La scorsa settimana ero nei pressi di un mercatino rionale e faceva molto caldo. Noto un giovane dai tratti asiatici che stazionava, all’interno del suo furgone, in un tratto di strada ombreggiato e degli altri automobilisti, in cerca di frescura, che lo stavano imitando. Il poverino non s’era accorto che il suo automezzo ostruiva l’accesso ad un posto riservato ad automobilisti muniti di contrassegno handicap. Non capita che di lì a poco arriva un’auto munita di tale contrassegno, intenta a guadagnare proprio quel posto libero? Si accorge che il furgone è di ostacolo e inizia a strombazzare col clacson in maniera sempre più assordante, con l’intento per far spostare il muso giallo che era all’interno del suo mezzo e non s’era accorto di nulla.  Probabilmente il tizio era in cuffia ad ascoltare musica. Nel frattempo quel clacson si fa sempre più imperioso ed ecco che scende una signora, perfettamente deambulante, che si avvicina minacciosa al giovane “occhi a mandorla” e lascia partire insulti di stampo razzista degni di uno scaricatore di porto. Il giovane finalmente si accorge, sposta il suo mezzo, e porge le sue scuse alla signora che continua imperterrita ad offendere, sotto lo sguardo allibito di una folta platea di curiosi che disapprovano le sue frasi ingiuriose, compreso chi vi sta scrivendo. Mi chiedo: dov’è finito il buon senso? Per certe persone esistono solamente i diritti. Saranno pure diversamente abili; ma sono ugualmente stronze!
Buona vita!
maestrocastello

martedì 8 maggio 2012

Voti ed ex voto.

Il paese sembrava essersi destato dal torpore che solitamente lo avvolgeva, finalmente succedeva qualcosa: domenica e lunedì si sarebbe votato per eleggere il sindaco. I muri erano  tappezzati di facce eccentriche dai cognomi pittoreschi e un carretto munito di altoparlanti come quelli degli ambulanti che vendono patate per strada, aveva percorso le strade cittadine da alcune settimane, assordando la gente al grido:  “Vota e fai votare!”.  Manifesti, volantini e santini narcisistici di loschi figuri locali erano solo la parte esteriore del tutto; ma nei paesi, si sa, da sempre la campagna elettorale si svolge sottotraccia. Ti avvicinano in piazza vecchi tromboni che fino ad ieri manco ti pisciavano e ti prospettano, se li voti, del possibile impiego di uno dei tuoi figli nello stabilimento industriale che amici della provincia gli hanno promesso di aprire proprio nelle vicinanze del tuo paese. Pie donne fanno il giro “casa per casa”, chiedendo voti di preferenza e promettendo ex voto sotto forma di favori e pacchi dono per  famiglie indigenti; una vera e propria compravendita di voti di sull’altare della povertà. Questi signori del feudo e le loro comari si comprano la fame dei tuoi figli, come i loro padri già fecero  con tuo padre, in un giro di voti di scambio che non portano a nulla di concreto. Ti promettono la luna, ma si sa che la luna ha smesso di passare per il tuo paese; tant’è che un giorno dovesti fare le valige e andartene, insieme a tanti altri disperati, per cercare fortuna in un’altre parti di questo mondo. Ora che sei tornato ti accorgi che tutto è rimasto come allora. Quando i paesi erano gremiti di gente, non meravigliavano quelle partenze, perché facevi il giro dei parenti e, tra un abbraccio e una lacrima, tutti sapevano che un giorno saresti tornato. Ora è diverso, non se ne accorge più nessuno che sei sparito e le partenze anche di pochi, tra un numero sparuto di abitanti, si notano e come. I paesi si svuotano e questi signorotti incontrastati padroni di feudi deserti con la bandiera arancione che vengono scelti a cura dei luoghi incontaminati della tua infanzia, in tua assenza, progettano discariche, avallano cementificazioni scriteriate e passaggi di elettrodotti dove non si potrebbe; con la promessa di posti di lavoro per cittadini, amici di partito e intanto permettono la chiusura dell’unico ufficio postale del paese, del circolo didattico che si sposta nel comune vicino e va a finire che una comunità che pullula di chiese con una certa storia, ora si ritrova a non avere nemmeno un prete per dire la messa ai vecchietti la domenica. Assegnano a questi posti la bandiera arancione della desolazione, con case statiche che si assomigliano sempre più fra loro, ma sempre meno ai pochi che le abitano e che la fanno da padrone. Per fortuna che qui non cambia nulla e le promesse finiscono in una bolla di sapone. Le case, a differenza delle persone, non abboccano alle false promesse del pifferaio di turno e sono restie ad ogni cambiamento. il paese gronda di vita pure in un muro scrostato, in un tetto sfondato, in un portone che non si apre da anni. Questi ruderi sono ospitali con il vento e col sole, accolgono l’alba ed il tramonto e ci aspettano sempre; sicuri che un giorno riprenderemo da dove avevamo interrotto.
Buona vita!
maestrocastello

venerdì 4 maggio 2012

Perché le strade non appartengono più ai bambini?

I primi dieci anni di vita li ho trascorsi per strada, quando le strade non rappresentavano ancora un pericolo. Le stradine di paese erano l’abc della vita per un ragazzo nato negli anni cinquanta in un paesino dell’entroterra  pugliese, Sant’Agata di Puglia, ai confini tra Basilicata e Campania. Se aveste vissuto il mio paese di allora avreste i brividi nella pelle, per la sua incredibile bellezza che al tempo non apprezzavamo abbastanza; con quelle case addossate una all’altra e piantate nella roccia, con quelle strade fatte di sassi levigati dall’uso delle nostre scarpe di cuoio, quando le indossavamo,  tempestate di “centrelle”,  chiodini quadrotti  pensati per prolungare il consumo delle suole. Indossavamo questi calzari esclusivamente per il tempo della scuola e della chiesa; altrimenti si andava scalzi o, tutt’al più, calzavamo scarpette di tela bianca o blu che erano appartenute ai fratelli più grandi. Quando il piede scoppiava in quella teletta, mia madre provvedeva  a tagliarne la punta per prolungarne la vita. Allora si era tutti poveri e nessuno si vergognava di nulla.  I genitori erano sempre via, chi in campagna, chi al mestiere ed eri spesso affidato allo sguardo attento della “comare”, vicina di casa. Tempo per i compiti ce n’era poco, per il gioco, invece, c’era lo spazio di un’intera giornata; d’altronde erano rare le persone di allora che sapevano di leggere e scrivere. Ricordo quando arrivava un telegramma, il primo impulso della gente era di mettersi a piangere, pensando che fosse foriero di disgrazie ed allora veniva chiamato quello saputo della strada che aveva frequentato fino alla terza elementare e leggeva il telegramma a tutto il vicinato come fosse un avviso alla cittadinanza e veniva letto e riletto a  beneficio di quanti accorrevano successivamente, richiamati dalla voce che nel frattempo si era diffusa alle stradine limitrofe. Quelle stesse strade oggi sono diventate mute, quando vi fai ritorno, senti solo il rumore dei tuoi passi sull’acciottolato rimodernato ripetutamente dalle varie amministrazioni comunali; se solo penso che sono state testimoni della vita intensa di tanti bambini che pur scalzi e con le pezze al culo; cullavano sogni che hanno poi realizzato altrove. Le strade pullulavano di tanti di quei ragazzi che si formavano gruppi per fasce diverse di età, perché  non c’era spazio sufficiente al gioco per tutti contemporaneamente. Il gioco che più mi affascinava era il “Trombone”, una specie di nascondino collettivo e ci si andava a nascondere nelle case circostanti, Giocavamo spesso a “Cavalletto”: uno  o più d’uno si mettevano  chinati” a schiena d’asino”, con la testa appoggiata al muro e  gli altri, prendendo la rincorsa e dovevano montarci sopra senza toccare terra coi piedi. Vi assicuro che era un divertimento collettivo che coinvolgeva spesso anche i grandi che vi assistevano divertiti. Si trattava sempre di giochi fatti con materiale povero e di fortuna: semi di zucca, sassi, pezzi di legno, palline di vetro, cuscinetti di automobili, bottoni rubati ai vestiti di casa, palle fatte di stracci; tutto tornava utile al divertimento di bambini senza troppi grilli per la testa. Fino agli anni cinquanta, oltre ai bambini, per le strade del mio paese circolavano spontaneamente anche tanti animali, in casa si tenevano cani, gatti ed anche galline che razzolavano libere per strada e solo a sera sentivi la padrona: “titì, titì, titì”, suonava la ritirata e le rinchiudeva dentro in un angolo della casa. Le case avevano spesso un buco, in basso a lato della porta d’ingresso, chiamato “gattaro” che permetteva al gatto di casa di entrare ed uscire liberamente, anche quando la porta era sprangata. Chi aveva la campagna, solitamente possedeva la “ciuccia” come mezzo di locomozione e trasporto, che teneva  in un grottino, in fondo alla stessa abitazione, se non si disponeva di un locale apposito. I muri esterni delle case erano tempestati di grossi anelli di ferro: “li cateniell”, dove si legavano questi animali, quando stazionavano all’aria aperta, specialmente la sera, quando i contadini facevano ritorno al paese e la gente si preparava per cenare tutti insieme. Mia madre per chiamarmi si metteva alla finestra a urlare, l’urlo era così forte che lo sentiva tutto il paese. Mi chiamava o perché c’era bisogno di fare provvista d’acqua al fontanino del Chiancato o dovevo scendere al tabacchino di Cutolo per le solite cinque Nazionali semplici per mio padre. In un batter di ciglia ero in piazza, prima che il tabacchino chiudesse, e al ritorno andavo piano e perché era tutta salita e per non stringere troppo con le dita le cinque sigarette di mio padre; se no, chi lo sentiva. Mia madre mi aveva dato dei confini e raramente mi allontanavo da quella strada di competenza che andava dal Chiancato fino alla chiesa di sant’Andrea, un percorso che la sua voce poteva campeggiare in ogni momento. Ricordo certe sere di maggio che somigliavano tanto alla “donzelletta….” che studiavamo a scuola, l’odore forte delle rose, i contadini che ritornavano stanchi   e ti regalavano certe melette chiamate di san Giovanni, il vecchietto che trinciava tabacco sulle scale di casa, mia madre che mi mandava a regalare un piatto di fichi alla vicina di casa, raccomandandosi di non far rompere il piatto; tutte scene di una vita semplice che vive ancora nei ricordi, ora che le strade non appartengono più ai bambini.    
Buona vita!
maestrocastello                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

martedì 1 maggio 2012

Primo maggio: la passione, la speranza, il futuro.

Intorno agli anni ottanta avevano tentato, per motivi di austerity, di abolire alcune delle festività dell’anno che poi furono subito ripristinate. Capirono, ad esempio, che non si poteva togliere ai bambini una festa come la Befana o ai lavoratori una festività come quella del primo maggio. Il primo maggio, infatti, non è stata mai in discussione, perché ha rappresentato da sempre, nell’ immaginario collettivo, la festa del lavoro per eccellenza. Un tempo che l’Italia era una nazione laboriosa ce n’era ben motivo di festeggiare; ma oggi che il lavoro è diventato una merce sempre più rara, sembra anacronistico festeggiare qualcosa che non esiste. Pensionati, disoccupati e milioni di giovani alla ricerca del primo impiego si trovano oggi a fare il ponte del primo maggio inteso semplicemente come gita fuori porta, fava col pecorino, concertone di San Giovanni e chi s’è visto s’è visto. D'altronde gli italiani sono affezionati ai ponti, che siano quelli che capitano a cavallo delle feste infrasettimanali, o quelli “sullo stretto” che la politica ha da sempre promesso di costruire, ma non è mai riuscita a realizzare; fa poca differenza. L’augurio che tanti italiani si fanno è che dopo il tempo dei sacrifici, arrivi anche il tempo della crescita e la gente ritorni a sorridere lavorando ed a festeggiare nuovamente nella sicurezza di un posto di lavoro. Solo la conquista di un  il lavoro potrà restituire quella dignità che oggi sembra persa per tanti  cassaintegrati, disoccupati e sottooccupati, per tanti giovani che un lavoro nemmeno lo cercano più. Una società giusta è quella che ha come obiettivo principe la felicità delle persone che potrà realizzarsi solo quando quelle persone si sentiranno utili nella dignità di un lavoro che non dev’ essere il privilegio di pochi fortunati; ma un diritto di tutti.Buon primo maggio e buona vita!                                                                                                                                              maestrocastello