I
primi dieci anni di vita li ho trascorsi per strada, quando le strade non
rappresentavano ancora un pericolo. Le stradine di paese erano l’abc della vita
per un ragazzo nato negli anni cinquanta in un paesino dell’entroterra pugliese, Sant’Agata di Puglia, ai confini tra
Basilicata e Campania. Se aveste vissuto il mio paese di allora avreste i
brividi nella pelle, per la sua incredibile bellezza che al tempo non
apprezzavamo abbastanza; con quelle case addossate una all’altra e piantate
nella roccia, con quelle strade fatte di sassi levigati dall’uso delle nostre
scarpe di cuoio, quando le indossavamo, tempestate
di “centrelle”, chiodini quadrotti pensati per prolungare il consumo delle suole.
Indossavamo questi calzari esclusivamente per il tempo della scuola e della
chiesa; altrimenti si andava scalzi o, tutt’al più, calzavamo scarpette di tela
bianca o blu che erano appartenute ai fratelli più grandi. Quando il piede scoppiava
in quella teletta, mia madre provvedeva a tagliarne la punta per prolungarne la vita.
Allora si era tutti poveri e nessuno si vergognava di nulla. I genitori erano sempre via, chi in campagna,
chi al mestiere ed eri spesso affidato allo sguardo attento della “comare”,
vicina di casa. Tempo per i compiti ce n’era poco, per il gioco, invece, c’era
lo spazio di un’intera giornata; d’altronde erano rare le persone di allora che
sapevano di leggere e scrivere. Ricordo quando arrivava un telegramma, il primo
impulso della gente era di mettersi a piangere, pensando che fosse foriero di
disgrazie ed allora veniva chiamato quello saputo della strada che aveva
frequentato fino alla terza elementare e leggeva il telegramma a tutto il
vicinato come fosse un avviso alla cittadinanza e veniva letto e riletto a beneficio di quanti accorrevano
successivamente, richiamati dalla voce che nel frattempo si era diffusa alle
stradine limitrofe. Quelle stesse strade oggi sono diventate mute, quando vi
fai ritorno, senti solo il rumore dei tuoi passi sull’acciottolato rimodernato ripetutamente
dalle varie amministrazioni comunali; se solo penso che sono state testimoni
della vita intensa di tanti bambini che pur scalzi e con le pezze al culo;
cullavano sogni che hanno poi realizzato altrove. Le strade pullulavano di
tanti di quei ragazzi che si formavano gruppi per fasce diverse di età, perché non c’era spazio sufficiente al gioco per
tutti contemporaneamente. Il gioco che più mi affascinava era il “Trombone”,
una specie di nascondino collettivo e ci si andava a nascondere nelle case
circostanti, Giocavamo spesso a “Cavalletto”: uno o più d’uno si mettevano chinati” a schiena d’asino”, con la testa
appoggiata al muro e gli altri,
prendendo la rincorsa e dovevano montarci sopra senza toccare terra coi piedi.
Vi assicuro che era un divertimento collettivo che coinvolgeva spesso anche i
grandi che vi assistevano divertiti. Si trattava sempre di giochi fatti con
materiale povero e di fortuna: semi di zucca, sassi, pezzi di legno, palline di
vetro, cuscinetti di automobili, bottoni rubati ai vestiti di casa, palle fatte
di stracci; tutto tornava utile al divertimento di bambini senza troppi grilli
per la testa. Fino agli anni cinquanta, oltre ai bambini, per le strade del mio
paese circolavano spontaneamente anche tanti animali, in casa si tenevano cani,
gatti ed anche galline che razzolavano libere per strada e solo a sera sentivi
la padrona: “titì, titì, titì”, suonava la ritirata e le rinchiudeva dentro in
un angolo della casa. Le case avevano spesso un buco, in basso a lato della
porta d’ingresso, chiamato “gattaro” che permetteva al gatto di casa di entrare
ed uscire liberamente, anche quando la porta era sprangata. Chi aveva la
campagna, solitamente possedeva la “ciuccia” come mezzo di locomozione e
trasporto, che teneva in un grottino, in
fondo alla stessa abitazione, se non si disponeva di un locale apposito. I muri
esterni delle case erano tempestati di grossi anelli di ferro: “li cateniell”,
dove si legavano questi animali, quando stazionavano all’aria aperta,
specialmente la sera, quando i contadini facevano ritorno al paese e la gente
si preparava per cenare tutti insieme. Mia madre per chiamarmi si metteva alla
finestra a urlare, l’urlo era così forte che lo sentiva tutto il paese. Mi
chiamava o perché c’era bisogno di fare provvista d’acqua al fontanino del
Chiancato o dovevo scendere al tabacchino di Cutolo per le solite cinque Nazionali
semplici per mio padre. In un batter di ciglia ero in piazza, prima che il
tabacchino chiudesse, e al ritorno andavo piano e perché era tutta salita e per
non stringere troppo con le dita le cinque sigarette di mio padre; se no, chi
lo sentiva. Mia madre mi aveva dato dei confini e raramente mi allontanavo da
quella strada di competenza che andava dal Chiancato fino alla chiesa di sant’Andrea,
un percorso che la sua voce poteva campeggiare in ogni momento. Ricordo certe
sere di maggio che somigliavano tanto alla “donzelletta….” che studiavamo a
scuola, l’odore forte delle rose, i contadini che ritornavano stanchi e ti regalavano certe melette chiamate di san
Giovanni, il vecchietto che trinciava tabacco sulle scale di casa, mia madre
che mi mandava a regalare un piatto di fichi alla vicina di casa,
raccomandandosi di non far rompere il piatto; tutte scene di una vita semplice
che vive ancora nei ricordi, ora che le strade non appartengono più ai bambini.
Buona vita!
maestrocastello
Buona vita!
maestrocastello
grazie MaestroCastello questo pezzo mi ha portato indietro di 50 anni, io mi trovavo alla parte opposta del paese, ho abitato al Ponte vicino alla Chiesa Convento di S.Antonio e lì in quelle strade ho trascorso al mia infanzia facendo tutto quello che hai scritto, ora i ragazzi grazie al benessere hanno altro da fare, altro che giocare a bottoni o a semi di zucca.Ciao Nardino Capano
RispondiEliminaCHE BEI RICORDI, RACCONTATI NEI MINIMI PARTICOLARI,
RispondiEliminaSE CHIUDO GLI OCCHI RIVIVO LE STESSE EMOZIONI DI BAMBINO SANT'AGATESE...
UN ABBRACCIO