venerdì 4 maggio 2012

Perché le strade non appartengono più ai bambini?

I primi dieci anni di vita li ho trascorsi per strada, quando le strade non rappresentavano ancora un pericolo. Le stradine di paese erano l’abc della vita per un ragazzo nato negli anni cinquanta in un paesino dell’entroterra  pugliese, Sant’Agata di Puglia, ai confini tra Basilicata e Campania. Se aveste vissuto il mio paese di allora avreste i brividi nella pelle, per la sua incredibile bellezza che al tempo non apprezzavamo abbastanza; con quelle case addossate una all’altra e piantate nella roccia, con quelle strade fatte di sassi levigati dall’uso delle nostre scarpe di cuoio, quando le indossavamo,  tempestate di “centrelle”,  chiodini quadrotti  pensati per prolungare il consumo delle suole. Indossavamo questi calzari esclusivamente per il tempo della scuola e della chiesa; altrimenti si andava scalzi o, tutt’al più, calzavamo scarpette di tela bianca o blu che erano appartenute ai fratelli più grandi. Quando il piede scoppiava in quella teletta, mia madre provvedeva  a tagliarne la punta per prolungarne la vita. Allora si era tutti poveri e nessuno si vergognava di nulla.  I genitori erano sempre via, chi in campagna, chi al mestiere ed eri spesso affidato allo sguardo attento della “comare”, vicina di casa. Tempo per i compiti ce n’era poco, per il gioco, invece, c’era lo spazio di un’intera giornata; d’altronde erano rare le persone di allora che sapevano di leggere e scrivere. Ricordo quando arrivava un telegramma, il primo impulso della gente era di mettersi a piangere, pensando che fosse foriero di disgrazie ed allora veniva chiamato quello saputo della strada che aveva frequentato fino alla terza elementare e leggeva il telegramma a tutto il vicinato come fosse un avviso alla cittadinanza e veniva letto e riletto a  beneficio di quanti accorrevano successivamente, richiamati dalla voce che nel frattempo si era diffusa alle stradine limitrofe. Quelle stesse strade oggi sono diventate mute, quando vi fai ritorno, senti solo il rumore dei tuoi passi sull’acciottolato rimodernato ripetutamente dalle varie amministrazioni comunali; se solo penso che sono state testimoni della vita intensa di tanti bambini che pur scalzi e con le pezze al culo; cullavano sogni che hanno poi realizzato altrove. Le strade pullulavano di tanti di quei ragazzi che si formavano gruppi per fasce diverse di età, perché  non c’era spazio sufficiente al gioco per tutti contemporaneamente. Il gioco che più mi affascinava era il “Trombone”, una specie di nascondino collettivo e ci si andava a nascondere nelle case circostanti, Giocavamo spesso a “Cavalletto”: uno  o più d’uno si mettevano  chinati” a schiena d’asino”, con la testa appoggiata al muro e  gli altri, prendendo la rincorsa e dovevano montarci sopra senza toccare terra coi piedi. Vi assicuro che era un divertimento collettivo che coinvolgeva spesso anche i grandi che vi assistevano divertiti. Si trattava sempre di giochi fatti con materiale povero e di fortuna: semi di zucca, sassi, pezzi di legno, palline di vetro, cuscinetti di automobili, bottoni rubati ai vestiti di casa, palle fatte di stracci; tutto tornava utile al divertimento di bambini senza troppi grilli per la testa. Fino agli anni cinquanta, oltre ai bambini, per le strade del mio paese circolavano spontaneamente anche tanti animali, in casa si tenevano cani, gatti ed anche galline che razzolavano libere per strada e solo a sera sentivi la padrona: “titì, titì, titì”, suonava la ritirata e le rinchiudeva dentro in un angolo della casa. Le case avevano spesso un buco, in basso a lato della porta d’ingresso, chiamato “gattaro” che permetteva al gatto di casa di entrare ed uscire liberamente, anche quando la porta era sprangata. Chi aveva la campagna, solitamente possedeva la “ciuccia” come mezzo di locomozione e trasporto, che teneva  in un grottino, in fondo alla stessa abitazione, se non si disponeva di un locale apposito. I muri esterni delle case erano tempestati di grossi anelli di ferro: “li cateniell”, dove si legavano questi animali, quando stazionavano all’aria aperta, specialmente la sera, quando i contadini facevano ritorno al paese e la gente si preparava per cenare tutti insieme. Mia madre per chiamarmi si metteva alla finestra a urlare, l’urlo era così forte che lo sentiva tutto il paese. Mi chiamava o perché c’era bisogno di fare provvista d’acqua al fontanino del Chiancato o dovevo scendere al tabacchino di Cutolo per le solite cinque Nazionali semplici per mio padre. In un batter di ciglia ero in piazza, prima che il tabacchino chiudesse, e al ritorno andavo piano e perché era tutta salita e per non stringere troppo con le dita le cinque sigarette di mio padre; se no, chi lo sentiva. Mia madre mi aveva dato dei confini e raramente mi allontanavo da quella strada di competenza che andava dal Chiancato fino alla chiesa di sant’Andrea, un percorso che la sua voce poteva campeggiare in ogni momento. Ricordo certe sere di maggio che somigliavano tanto alla “donzelletta….” che studiavamo a scuola, l’odore forte delle rose, i contadini che ritornavano stanchi   e ti regalavano certe melette chiamate di san Giovanni, il vecchietto che trinciava tabacco sulle scale di casa, mia madre che mi mandava a regalare un piatto di fichi alla vicina di casa, raccomandandosi di non far rompere il piatto; tutte scene di una vita semplice che vive ancora nei ricordi, ora che le strade non appartengono più ai bambini.    
Buona vita!
maestrocastello                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

2 commenti:

  1. grazie MaestroCastello questo pezzo mi ha portato indietro di 50 anni, io mi trovavo alla parte opposta del paese, ho abitato al Ponte vicino alla Chiesa Convento di S.Antonio e lì in quelle strade ho trascorso al mia infanzia facendo tutto quello che hai scritto, ora i ragazzi grazie al benessere hanno altro da fare, altro che giocare a bottoni o a semi di zucca.Ciao Nardino Capano

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  2. colotti.giovanni@alice.it4 maggio 2012 alle ore 22:36

    CHE BEI RICORDI, RACCONTATI NEI MINIMI PARTICOLARI,
    SE CHIUDO GLI OCCHI RIVIVO LE STESSE EMOZIONI DI BAMBINO SANT'AGATESE...
    UN ABBRACCIO

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