domenica 27 febbraio 2011

Stanno uccidendo la lingua italiana.

















Un po’ di storia :                                                                                                            
Fino al IX° secolo nei paesi europei si parlava la lingua dei Romani e cioè in latino.  Fu con il Concilio di Tours ( anno 813), al tempo del Sacro Romano Impero di Carlo Magno, che ebbero il loro corso ufficiale le lingue romanze. Il Concilio stabilì che il latino corretto restasse in uso fra tra gli alti ranghi ecclesiastici e politici, mentre i religiosi, per farsi capire dalle masse analfabete, dovevano tradurre le loro prediche nella lingua romana rustica, detta romanza.  L'italiano è detto appunto lingua  romanza, dall'espressione latina: "romanice loqui" ( parlare come i Romani) ed è diretta erede del latino, basata sul fiorentino usato nel Trecento. In Italia, però, la lingua romanza o volgare verrà impiegata più tardi rispetto agli altri Paesi europei sia perché il latino era più profondamente radicato nelle nostre culture locali sia perché da noi non sussisteva ancora una compattezza politica territoriale. Infatti le prime manifestazioni artistiche in Italia si ebbero a Palermo, grazie a Federico II° (1215-1250) che aveva saputo  amalgamare un minestrone di regioni meridionali nel Regno delle Due Sicilie. 
La lingua italiana come collante unitario :         
La lingua italiana al pari della cucina è riuscita là dove i governi hanno fallito. Ci pensate che nel1860  erano stati disegnati i confini di un regno, l’Italia, al cui interno gli abitanti non si capivano l’un l’altro? L’analfabetismo in quegli anni toccava cifre spaventose. Un merito va riconosciuto alla radio-televisione che ha divulgato una lingua che finalmente ci accomunava  tutti da Bolzano a Lampedusa. Una menzione speciale, nel 150° dell’Unità nazionale, va attribuita al maestro elementare Alberto Manzi che, negli anni 50-60, contribuì all’alfabetizzazione di milioni di analfabeti adulti, attraverso un innovativo modo di insegnamento a distanza. Alle sette di sera, in ogni paesino d’Italia, la gente si riuniva davanti al televisore per assistere a “Non è mai troppo tardi”, dove quest’uomo bonario, su un semplice blocco di carta montato su un cavalletto, scriveva col  carboncino lettere e parole corredate sempre da un accattivante disegnino di riferimento. Grazie a lui, più di un milione e mezzo di italiani conseguirono la licenza elementare. L’accesso alla cultura anche da parte delle classi meno abbienti ha permesso ad una fetta più ampia di popolazione di conoscere poeti e letterati italiani che hanno espresso tutta la loro arte attraverso una lingua divenuta sempre più aulica e sempre più nobile.

La lingua italiana si  è ammalata
Da alcuni decenni è iniziata una lenta e progressiva agonia della lingua nazionale e le cause sono molteplici. La massificazione della cultura ha sminuito l’azione incisiva che un tempo aveva la scuola: il voto politico, la facilità di ottenere il diploma, la disabitudine alla lettura hanno fatto sì che freschi diplomati non sono più in grado di scrivere quattro righe senza commettere una montagna di errori. L’inglese ha fatto irruzione nella nostra vita e dalla pubblicità alla musica siamo inondati di termini accattivanti di cui non conosciamo il significato. I nostri ragazzi cazzeggiano con questa lingua e poi sono insufficienti nelle interrogazioni. Ora parlare è diventato chattare e se ci ficcate il naso in Facebook, vi accorgerete che fine ha fatto la nostra grammatica. Il cellulare poi ha completato il massacro: i ragazzi ormai si esprimono solo per sigle: tvb, ok, out, in, xchè, +ttosto ecc…..  ed a me non resta altro che dire: “p.l.i. !” che non è la sigla di un nuovo partito politico, ma sta semplicemente per : “povera lingua italiana!”
Buona vita!
maestrocastello

martedì 22 febbraio 2011

Agguati metropolitani.

Colosseo illuminato per la protesta contro lo stupro alle donne!


Il fatto :
Una giovane di 23 anni è stata violentata la notte del 18 febbraio scorso, nella zona di Trinità dei Monti a Roma.  La giovane è stata aggredita e trascinata da due uomini tra due automobili in sosta ed uno di loro l'ha violentata, mentre l’altro la teneva ferma. E’ già il secondo caso di violenza nella città di Roma, a distanza di appena pochi giorni ed il sindaco, ancora una volta,  ha preso il provvedimento di far illuminare il Colosseo. Questo caso segue l’altro del 31 gennaio scorso sempre a Roma: «Sull’autobus a quell’ora c’ero rimasta soltanto io. All’improvviso il conducente ha fermato il mezzo, è corso verso di me e mi ha violentata».
Riflessione :
Mi chiedo, cosa succede a questa città e a tutte le nostre città che appena quattro giorni fa hanno festeggiato con le donne la festa degli innamorati? Magari pure quei due violentatori, in incognita, avranno accompagnato la loro fidanzata ad una cenetta a lume di candela e le avranno regalato rose e promesso eterno amore. Come mai, mi chiedo, sono diminuiti furti e rapine, ma le violenze contro le donne non accennano a diminuire? Ha ragione Dacia Maraini ad affermare che lo stupro è una vera e propria arma di guerra maschile e non ha nulla a che vedere col desiderio sessuale inappagato. Anche perché viviamo in un’epoca di emancipazione sessuale, in cui è spesso proprio la donna a prendere certe iniziative e il sesso è vissuto in modo più naturale e libero e, male che ti vada, le nostre strade cittadine pullulano di ragazze che hanno scelto di dare piacere a pagamento. Illuminare il Colosseo di sera  è sicuramente un’iniziativa positiva, un gesto simbolico significativo, come far luce su tutte le storie di violenza che restano nell’ombra; ma quello che allarma è che ultimamente lo stiamo facendo troppo spesso. La polizia sta facendo indagini per trovare i due violentatori, ma sono convinto che, pure se li prenderanno, il problema non sarà risolto; perchè loro sono solo gli autori materiali di questa  violenza.  I veri violentatori siamo tutti noi, o meglio, è la nostra non cultura della legalità e del rispetto dell’altro che la nostra città sembra aver dimenticato.  Alla base dello stupro c’è la volontà di ribadire il dominio del maschio sulla donna che si manifesta mortificandone il corpo, lacerandolo e castigandolo, per sancire la propria superiorità; proprio in un momento in cui la donna è impegnata a far valere la parità di diritti. Vedete dove sta il controsenso: in questo periodo sentiamo dire da più parti che la donna è libera di spogliarsi, di agghindarsi e di vendersi; ma, stando ai fatti, non è poi libera di camminare tranquillamente per la strada di notte.          
Quello che colpisce è il silenzio maschile. Scrive Lidia Ravera: “Voi che non pagate le donne, che non placcate le minorenni, che preferite la qualità alla quantità, che volentieri vi assumete il rischio di una relazione alla pari, che non considerate fare del  sesso una pratica completamente disgiunta dall’amore, dalla tenerezza, dalla seduzione, voi che non siete puttanieri, per favore, DITE QUALCOSA!”.
Buona vita!
maestrocastello

domenica 20 febbraio 2011

Non sono solo canzonette!



Spesso mi sono interrogato sulla funzione che deve avere una canzonetta e sempre sono tornato con la mente ai tempi della mia infanzia, quando le canzoni ascoltate alla radio rappresentavano per la gente un bel momento d’evasione e, appena ascoltate alla radio, erano presto imparate e fischiettate da tutti. Era usuale vedere un operaio che svolgeva il proprio lavoro al ritmo della canzone del momento. Chi può dimenticare “mastro Rocco”, il ciabattino vicino la mia casa da bambino che batteva il martello sulla malcapitata tomaia, al ritmo di “Vecchio scarpone, quanto tempo è passato”? Era uno spasso, tanto che passavo di proposito davanti la sua minuscola bottega calzolaia e lo ascoltavo di nascosto. Allora si cantava di tutto: “Avvinto come l’edera”, piuttosto che “II pericolo numero uno, la donna”, oppure “Casetta  in Canadà” , “Quel mazzolin di fiori” e  perfino “faccetta nera dell’Abissinia”; basta che si cantava. Il testo delle canzoni era spesso avulso dalla realtà, ma  l’importante era il momento di gioia che anche una semplice marcetta riusciva a provocare nella gente semplice di allora. Poi sarebbero arrivate le canzoni impegnate dei cantautori dal forte contenuto  politico-sociale negli anni della contestazione e la canzonetta avrebbe perduto la semplice funzione di passatempo che aveva un tempo. Una volta il Festival di San Remo era aspettato davvero  tutto l’anno e rappresentava l’occasione per rinnovare il guardaroba canoro di ciascuno. Ricordo che compravo il libricino con tutti i testi delle canzoni già alcune settimane prima della gara, le imparavo tutte a memoria e provavo a cantarle, anche se non conoscevo quale sarebbe stata la musica. Le case di quei pochi  che possedevano un apparecchio televisivo si gremivano di gente che assisteva alle serate del Festival in religioso silenzio, per assorbire meglio tutte le sfumature della manifestazione. Si formavano, seduta stante, i partiti per Modugno, Claudio Villa e Sergio Bruni e si facevano le immancabili previsioni su chi sarebbe stato il vincitore. Era certo che quelle canzonette il giorno dopo le avrebbe cantate tutto il paese e sarebbero entrate a far parte del bagaglio canoro di ciascuno. Chiedete adesso se qualcuno ricorda il titolo della canzone che ha vinto il festival l’anno scorso!  San Remo, infatti, ha perso la sua connotazione naturale per divenire un indotto milionario, dove l’avvenimento mondano ha soppiantato l’interesse per le canzoni. Dopo che per anni i cantautori più in voga avevano disertato il Festival, Roberto Vecchioni quest’anno, ha accettato la sfida, mettendo in campo una vera e propria poesia in musica: “Chiamami ancora amore”. Il suo pezzo è una efficace lezione politico-sociale rivolta ai giovani ed “alle loro speranze troppo spesso disilluse”. E’ un invito ai ragazzi e alle ragazze a far sentire la loro opinione e l’invito assume un suo peso perché rivolto da una cattedra così importante ed in un momento politico e sociale particolare per il Paese. Il messaggio è particolarmente coraggioso in un tempo in cui la politica è in pausa-pranzo permanente e quando si mette all’opera è più preoccupata  a scacciare barconi di  extracomunitari disperati che a dare respiro all'economia nazionale. Non sono solo canzonette se qualche minuto appena di un testo cantato può raggiungere così tante persone e se incide sulla gente più di qualsiasi libro che quelle stesse persone non leggeranno mai. Se tutti quei ragazzi e ragazze "così belli” continueranno ” a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero”; allora Evviva San Remo!, Evviva Roberto Vecchioni!, Evviva  una canzone come “Chiamami ancora amore!” , Evviva le canzonette!
Buona vita!
maestrocastello

venerdì 18 febbraio 2011

Il vento del deserto.


Da qualche mese in tutta l’area nord-africana è iniziato a spirare il vento della protesta che, partendo dalla Tunisia, ha investito  come un ciclone inarrestabile Egitto, Libia, Marocco, Iran, Bahrein, Algeria, Camerun, Kuwait, Yemen e potrebbe spingere alla ribellione tanti altri Paesi mediorientali al grido di: “Guardate all’Egitto, vinceremo!”. La rivolta popolare è riuscita a far dimettere il presidente Zin el-Abidin Ben Ali in Tunisia, a rovesciare in soli 18 giorni  il regime di Hosni Mubarak che durava da 30 anni e a dare  convinzione a tanti  altri popoli di religione musulmana. Insomma ciascuno dei Paesi in protesta pensa che se ce l’hanno fatta  tunisini ed egiziani, possono riuscirci anche loro. Questi Paesi sono dilaniati da una disoccupazione che oscilla tra il dieci ed il tredici per cento e sono privati delle forme sia pur minime di democrazia. Questa è la dimostrazione che la democrazia non si impone e non si esporta, ma è conquista di un popolo che, quando è pronto, è disposto a sacrificare la vita  pur di appropriarsene. Noi abbiamo spesso idee sbagliate sul  conto di queste popolazioni, le crediamo da noi molto distanti, forse arretrate; eppure essi chiamano il popolo  a scendere in piazza tramite facebook , come è successo nel Bahrein o tramite internet, come succede per gli studenti in Libia ed in Algeria. La religione questa volta non è stato un buon deterrente per distoglierli dal protestare.. La loro è una protesta civile per chiedere più diritti e riforme politiche e sociali; ma deve purtroppo fare i conti con regimi repressivi che costringono spesso a sacrificare decine di vite ogni giorno. Gheddafi ha invitato inutilmente i giovani libici a fare quadrato contro l’Occidente infedele; ma questi  hanno finalmente compreso  che non si può  restare eternamente isolati dal resto del mondo. Le idee girano di paese in paese, maturano e alla fine divampano sotto forma di protesta. Dal 10 di febbraio la rivolta ha preso la strada dello Yemen sotto la guida di una donna,  la trentaduenne Tawakkol Karman, cosa incredibile per un paese arabo, dove le donne contano poco più di niente.  Sembra straordinario che proprio il 13 febbraio, quando le nostre donne manifestavano al grido di:”Se non ora, quando?”, altre donne, in uno Stato lontano del Mar Rosso erano in rivolta non violenta per una rivincita tutta al femminile, oltre che per una richiesta di forme democratiche per tutti. In pochi si aspettavano che fosse proprio una donna a guidare la rivolta nello Yemen, dove la maggior parte dei manifestanti è composta da uomini, in un Paese dove i diritti civili delle donne spesso  vengono calpestati: le donne non possono guidare, candidarsi, votare e neppure andare a dormire da sole in un albergo .La maggior parte di loro non è libera di sposare chi vuole e  molte sono costrette al matrimonio ancora bambine. Se vengono ripudiate dal marito, non possono autonomamente chiedere il divorzio se non per il tramite di un uomo, il padre o fratello maggiore. Vi ricordate il caso di Amina, la sposa bambina che era fuggita dalla prigione in cui l’avevano costretta suo marito e suo padre?:” Mi sono sposata a 14 anni. Lui ne aveva 20 di più. La mia famiglia mi ha venduta. Il prezzo? Poca cosa: seicento euro, pari a tre mesi di stipendio per mio padre. In Italia sono stata rinchiusa, picchiata, costretta a indossare il velo, messa incinta e umiliata: a Milano mi aspettava un' altra sposa. Mio marito era poligamo». Nei tribunali, le loro testimonianze valgono la metà di quelle degli uomini. Se vengono uccise, alle loro famiglie spetta un risarcimento dimezzato rispetto a quello previsto per gli uomini. Inoltre, le donne sono trattate diversamente anche quando si tratta di eredità e potremmo continuare.  Forse un giorno noi uomini la smetteremo di considerare le donne solo un dettaglio, un paio di tette o, per dirla con Dario Fo, “un ventre che si è scoperto per nostro padre e per noi”. Riusciremo forse a guardare le donne oltre le gambe e vederle finalmente  come persone, ma intanto facciamo il tifo per la giovane Karman in uno Yemen finalmente a misura di donna.
Buona vita!
maestrocastello

martedì 15 febbraio 2011

Gocce di vita.


L’acqua  è fonte primaria di vita, ma è una risorsa sempre più scarsa, a differenza di quanto avveniva in passato, quando è stata considerata per anni un bene di poco valore in quanto ritenuta di fatto inesauribile e di nessun costo reale. L’acqua non è una merce, ma una risorsa fondamentale per la vita degli esseri viventi e riveste un’importanza capitale per attività umane primarie quali agricoltura ed allevamento di bestiame. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite il 33% della popolazione mondiale non ha accesso all’acqua potabile e la sua  mancanza  provoca il 19% di morti per malattie infettive. Certo fa rabbia confrontare gli sprechi che  facciamo in Italia e la drammatica situazione di chi non ha accesso a quello che dovrebbe essere un diritto naturale per l’umanità. Il problema dell’assenza d’acqua l’ho vissuto da bambino al mio paese di nascita, Sant’Agata di Puglia, in provincia di Foggia, allora non avevamo ancora l’acqua in tutte le case. Donne e bambini facevano la fila ai fontanini del paese, armati di secchi di rame . Quelli che avevano il privilegio di farsi allacciare una conduttura d’acqua nella propria abitazione erano considerati dei signori. Specialmente in estate i fontanini erano sempre  a secco e l’acqua la mettevano solo ad ore prefissate. Ricordo che appena qualcuno avvertiva il primo scroscio, cominciava il passaparola, di casa in casa: “è arrevèta l’acqua!...è arrevèta l'acqua!" proprio come fanno in  certi spot pubblicitari ed iniziava anche la corsa generale a fare scorte giganti. Ancora oggi, mi emoziona veder scorrere acqua in abbondanza da una fontana e mi è rimasta l’educazione al risparmio. Quando faccio la doccia, apro l’acqua solo dopo essermi insaponato a puntino; quando faccio la barba non lascio scorrere acqua in continuazione, ma solo quando serve; uso insomma tanti piccoli accorgimenti perché ho un certo pudore nei confronti dell’acqua. Lo stesso pudore non ce l’hanno invece gli amministratori pubblici. Lo sapevate che a causa degli impianti idrici fatiscenti delle nostre città, partono mille litri alla fonte e ne arriva ai nostri rubinetti solo una parte e il resto va disperso? Con la legge Rochi del 2007 il governo ha pensato di affidare ai privati la gestione dell’acqua e siccome il privato lo fa esclusivamente per guadagno, non permetterà che vada sprecata  una sola goccia; perciò rinnoverà certamente le condutture cittadine con i contributi pubblici e anche appesantendo le nostre bollette. Insomma l’acqua potrebbe costare molto cara. Mi chiedo, perché questa operazione non la mettono in cantiere i Comuni?  Pensate,  a Milano, un Comune che funziona,  su cento litri che vengono immessi negli impianti, se ne disperdono appena sette. Allora, di cosa stiamo discutendo! Al referendum di giugno voterò contro la privatizzazione dell’acqua; ma le amministrazioni pubbliche bisogna che si diano una mossa. Intanto ai privati diciamolo con forza:”Giù le mani dall’acqua!”.
Buona vita!                                                                                                                      
maestrocastello

giovedì 10 febbraio 2011

Vite inghiottite dall’oblio.


Il ricordo:                                                                                                                         
Mi accingo  a scrivere questo post nel “giorno del ricordo” e lo faccio volutamente alla fine della giornata, quando ormai si sono spente le luci,  consumate cerimonie, deposte corone e la politica ha mostrato il lato buono del suo volto di circostanza. A sera si può riflettere con calma e volevo appunto fare alcune riflessioni sull’argomento insieme a voi, perché credo sia il modo migliore per ricordare le tante vite di italiani prima spezzate e poi inghiottite in un oblio durato oltre sessant’anni. Mi è capitata la lettera di una straniera che dice di aver imparato un vocabolo nuovo della nostra lingua, “foiba”, parola che ha trovato densa di significato; a differenza  di tantissimi italiani che nemmeno conoscono, non per ignoranza; ma perché nessuno gliela ha mai insegnata. Dal latino, foiba significa fossa e nell’Italia nord- orientale designa una cavità carsica di origine naturale, con un ingresso a strapiombo. Fu proprio in quelle voragini che tra il ’43 ed il ’47 vennero gettati vivi e morti oltre diecimila italiani .
                                                                                                             
                                                                                                                          
la storia :
Prima del ’43 i fascisti avevano consumato angherie verso i partigiani slavi. Dopo l’8 settembre di quell’anno, furono gli slavi a vendicarsi di fascisti e italiani non comunisti, torturando, uccidendo e gettando nelle foibe oltre mille italiani. Nel ’45 le truppe iugoslave del maresciallo Tito occuparono  Trento, Trieste e l’Istria, iniziando un’odiosa pulizia etnica: a cadere nelle foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti uomini di chiesa, donne, anziani e bambini; quasi diecimila italiani uccisi barbaramente.  Tito voleva eliminare dalla futura Jugoslavia tutti i non comunisti.   




Riflessioni :
In tutta franchezza, a scuola vi hanno mai parlato di foibe? No?!? Si vede che non andava di moda. La storia riflette spesso quello che è il pensiero dominante del tempo, ecco che abbiamo la storia del "Fez e moschetto”, la storia del libro "cuore”, la storia della “Resistenza”, La storia della “caduta del muro”, la storia delle "torri gemelle",  del post-comunismo e via discorrendo. La storia, ciascuno  vorrebbe  riscriverla a suo comodo. Fatto ne è che la nostra Italia,  sia quella storica, politica, didattica, dello stato civile; andando in confusione sugli ultimi anni di guerra, ha preferito sollevare il tappeto e buttarvi sotto la sporcizia e di quei fatti così atroci nessuno ha mai fatto menzione, se ne sussurrava soltanto; ma non se n’è mai parlato chiaramente. Il risultato è una confusione imbarazzante. Queste giornate penso che siano pura retorica fintanto che continuiamo a considerare il “Venticinque Aprile” una ricorrenza gradita solo a sinistra, il “”Giorno del Ricordo” rivendicata e riconosciuta solo da quelli di destra e la conferma arriva proprio stasera con la notizia che gli autonomi hanno fatto scempio del monumento che il Comune di Santa Margherita Ligure  aveva eretto in onore dei caduti delle foibe. Il presidente della provincia di Salerno, uomo di destra, proprio l’anno scorso aveva  cancellato “La Resistenza” dai manifesti del 25 aprile nella sua città. Di cosa stiamo allora parlando? Bisogna fare una seria riflessione per le Foibe come per la Shoah e per tutti quei drammi del passato, il cui ricordo non ha il senso della rivalsa, ma della lezione di vita nel confronto dei più giovani e dobbiamo farla tutti insieme, non in quanto di destra o di sinistra; ma in nome della nostra dignità di uomini. Ce la faremo mai? Ho i miei dubbi e mi chiedo: quante vite dovremo vivere, per viverne adeguatamente almeno una?
Buona vita!
maestrocastello.

domenica 6 febbraio 2011

“Se serve, pago io.”


La favola antica:
Agli inizi del milleottocento i fratelli Grimm scrivono il “flauto magico”. La favola narra che in  una cittadina tedesca, Hamelin, sul fiume Weser,  un semplice flautista riuscì a liberare l’intera città che era invasa di topi, grazie all’opera del suo flauto magico che attirò verso il fiume milioni di topi che,  ammaliati dal  suono del suo strumento,  affogarono tutti nell’acqua. Il sindaco che pur  aveva promesso  a quell’uomo una lauta ricompensa, poi non tenne fede alla parola data.
La favola moderna:
Sono trascorsi due secoli esatti da quella data ed oggi, duemilaundici, è stata riscritta una favola analoga a quella e il titolo, poi capirete perchè, potrebbe essere : “Se serve, pago io!” La città questa volta è Fossalta di Piave, a due passi da Venezia ed a scriverla  sono stati non due fratelli  favolisti di professione; ma un gruppo di quattro maestre, due bidelle e i cittadini di questo simpatico comune della laguna veneta. La fiaba moderna narra di una bimba di colore che frequenta il tempo pieno nella scuola dell’infanzia, chiamata ( ironia della sorte) “Il flauto magico” di Fossalta che  improvvisamente s’è vista negare il diritto di sedere alla mensa scolastica di quella scuola, perché sua madre non ce la fa più a pagare nemmeno la quota ridotta di cinquanta euro mensili. Suo padre, ex cassa- integrato si trova ora a lavorare in Francia e sua madre con ciò che lui manda non riesce proprio a campare i loro cinque figli. Come si fa a dire ad una bimba così piccola: Tu non mangi!   Una soluzione era stata pur trovata, ascoltate… Le maestre di classe e alcune bidelle avevano deciso di cedere a turno il pasto spettante a ciascuna, pur di permettere alla bimba di restare seduta al tavolo con i compagnetti di classe. La cosa, però, s’è venuta a sapere ed è arrivata alle orecchie del sindaco che  ha tuonato: “il buono pasto non è cedibile senza incorrere in danno erariale per il Comune!”.  La bambina viene invitata ad andarsene prima di pranzo, lontano dai suoi amici.  Questione di soldi, direte? No, solo questione di pura intolleranza. Se il pasto è mio, lo posso dare a chi mi pare; cosa centra il Comune?
Morale della favola :
Appena saputa la storia s’è mobilitato un pezzo d’Italia che ha detto indignata: “Se serve, pago io.” . Un signore del luogo ha subito offerto tre blocchetti di buoni pasto alla famiglia della piccola. I genitori degli altri bambini hanno protestato ed offerto la loro solidarietà alla famiglia , dimostrando il cuore profondo del Veneto che, a prescindere dal colore politico, ha ritenuto inaccettabile la posizione del sindaco e della preside.
Riflessione :
Diciamo subito che in entrambe le favole il sindaco non ne esce proprio bene. Che la parte del pifferaio a Fossalta l'hanno interpretata le maestre ed i cittadini solidali. Avete notato che ho tralasciato di menzionare il colore politico del primo cittadino di Fossalta di Piave? Semplice, perché credo che schierarsi da una parte o dall’altra serva solo  a dare un taglio distorto della realtà che ci fa allontanare dal problema reale. Il problema è  questa non accettazione del diverso da noi che,  quando ci è utile, deve restare nell’ombra, ai margini della nostra vita; quando poi non lo riteniamo più di alcuna utilità,  deve addirittura scomparire, perché rappresenta un pericolo per il nostro decoro di persone per bene. Qui  non stiamo parlando di rumeni che stuprano, zingari che rubano o delinquenti che ammazzano; ma semplicemente di una bimba di pochi anni che non corrisponde l’importo di buoni pasto ad una scuola. Se sapeste quanto cibo va sprecato giornalmente nelle mense scolastiche! Ve lo dice uno che è invecchiato nella scuola e sa bene di cosa stiamo parlando. Chi ne esce davvero vincente da questa storia è la gente di Fossalta di Piave quando dice: “La scena della bambina che piangeva perché veniva separata dai suoi amichetti  ci ha devastato il cuore. Non avevamo e non abbiamo nulla contro l’amministrazione, non facciamo politica! Abbiamo fatto quello che qualsiasi genitore di buonsenso vorrebbe fare”.  
Credetemi, questa non è retorica e il sindaco in questione farebbe bene a seguire l'esempio dei suoi concittadini.                                                                                            
Buona vita!

maestrocastello

venerdì 4 febbraio 2011

"Di qui non si passa!".


Oltre a tanti fatti negativi che racconta la televisione, finalmente ne abbiamo ascoltato uno che ci ha toccato particolarmente durante la puntata di “Chi l’ha visto?” di mercoledì, 2 febbraio.                
Il fatto 
I coniugi Respighi, camperisti di Abbiategrasso e amanti della storia che hanno la passione di girare l’Europa,  nel luglio del 2009 si trovavano nella città russa di Miciurinsk per rendere omaggio ai soldati italiani morti nella Campagna di Russia, vite spezzate troppo presto dalla guerra di cui non sì è saputo più nulla. Durante la visita sono avvicinati da un abitante del luogo che  affida loro molte piastrine di riconoscimento appartenute ad alcuni nostri soldati, allo scopo di riportarle in Italia e consegnarle ai loro parenti”. Un nobile gesto di altruismo, se pensate che quel signore avrebbe potuto ricavarci molto denaro dalla vendita e invece ha preferito che andassero ai familiari dei soldati morti. Una volta tornati in Italia i coniugi Respighi hanno iniziato la loro nobile missione di rendere possibile il ritorno simbolico di ciascun soldato caduto in Russia, consegnando la piastrina di riconoscimento ai  parenti che hanno atteso invano il ritorno dei loro cari per sessantasette anni. Questo è un pezzo d’Italia invisibile, minore,  fatto di solidarietà. La storia  ha toccato particolarmente il pubblico televisivo che nella scorsa puntata di “Chi l’ha visto?” ha assistito alla consegna materiale della piastrina dell’alpino Attilio Cicone a sua sorella Carmela, nella sua casa di Pietransieri, piccolo comune di Roccaraso (L’Aquila). La sorella, un’anziana signora di modi assai semplici, appariva commossa e appagata nel ricevere finalmente un segno tangibile di suo fratello, dichiarando che la sua attesa poteva considerarsi finalmente conclusa. 
Perché quei soldati si trovavano proprio in Russia? si chiederà qualche giovane che ha tralasciato di studiare la seconda guerra mondiale. Sarà utile un piccolo accenno:
la storia :
Tra il 1941 ed il 1943 si era in piena guerra mondiale e l’Italia fascista era impegnata nella campagna di Russia, a fianco di Hitler che aveva deciso di invadere l’Unione Sovietica (dicono  a nostra insaputa).  Mussolini  inviò comunque forze del Regio Esercito  a sostegno dell’alleato tedesco, nel timore di arrivare in ritardo alla spartizione delle risorse di un nemico, la Russia,  considerato oramai sconfitto. Le spedizioni  italiane furono tre:  il Corpo di Spedizione Italiano, l’ 8° Armata Italiana e la Divisione Alpina Julia. Fu un vero disastro, le cifre ufficiali parlano di 26.115 morti, 43.166 feriti e 63.684 dispersi; i soldati italiani impiegati al fronte erano stati circa 220.000. Soltanto la Divisione Alpina  fu  considerata dagli stessi russi imbattuta, essa fu inviata sul fiume Don a proteggere lo sfondamento da sud, al grido di: “ Qui non si passa!”. Nel 1946, a guerra conclusa,  l'Unione Sovietica consentì il rimpatrio di circa 10.000 nostri prigionieri di guerra. “Solo nel 1989 fu possibile la restituzione dei primi resti, in seguito ad una lunga campagna promossa dai reduci per la restituzione delle salme dei caduti. Poi sarà consentito dalle autorità russe l'accesso a 72 dei molti cimiteri di guerra italiani in quel territorio e sarà iniziata l' operazione di rimpatrio di circa 4.000 salme. Ai caduti della "guerra di Russia" è dedicato un tempio a Cargnacco, presso Udine, ove sono raccolti anche gli ignoti.”
la riflessione :
La filmografia ha testimoniato solo in parte le condizioni proibitive dei  soldati italiani nella campagna di Russia: mal vestiti, male armati e mal nutriti; costretti a combattere due nemici contemporaneamente: i russi e una temperatura da -50°. Ero appena un ragazzo negli anni sessanta e anche nel mio paese di nascita, Sant’Agata di Puglia,  ho visto tanti volti di ragazzi dispersi in Russia nei porta-ritratti appesi al collo delle loro madri, mogli o sorelle;  ho visto lacrime sgorgare da occhi sempre fiduciosi di una pur flebile speranza di veder ricomparire i loro cari, come per incanto. Come, simbolicamente, Attilio Cicone è tornato ai suoi cari, spero che altri ancora possano farvi ritorno.
Buona vita!
maestrocastello


(le notizie storiche sono tratte da Wikipedia/

mercoledì 2 febbraio 2011

L'unità d'Italia si chiama pastasciutta.

Uniti a tavola.
In queste settimane scorre uno spot televisivo sull’unità d’Italia che mostra gente   parlare dialetti stretti e impossibili da decifrare, lasciando allibiti chi li ascolta. Fortunatamente, però, siamo italiani e specie quando mettiamo i piedi sotto la  tavola ci comprendiamo benissimo e possiamo viaggiare fra le nostre regioni semplicemente cambiando il piatto di portata.  Per quanto  siamo poco attaccati all'amor di patria, è innegabile che, culinariamente parlando, siamo nati in una terra fortunata. Cucinare non è poi tutta questa difficoltà, ma è incredibile quanto ciò riesca male ad anglosassoni e tedeschi, se si esclude una certa abilità nel barbecue e nell’aprire scatolette di cibi preconfezionati da riscaldare al microonde. 
La nostra grande fortuna, specie quando ci si confronta con ospiti stranieri, è la pasta. Come dice Cesare Marchi:“L’unità d’Italia sognata dai padri del Risorgimento oggi si chiama pastasciutta, per essa non s’è versato molto sangue; ma molta pummarola”. La pasta è un piatto facilissimo da preparare anche per uno straniero, figurarsi per noi italiani, di qualunque regione, che siamo maestri di scienza in cucina. E poi, basta seguire le istruzioni sulla confezione, mica è un segreto di stato! Anche se ognuno di noi ha sempre in serbo qualche trucchetto per dare a questo o quel piatto un certo tocco personale. Si può ben dire che l’arte della cucina italiana ha contribuito all’unificazione dello Stivale più del libro “Cuore” o degli stessi  “Promessi Sposi” e sapete perché? Leggere era una cosa da ricchi, che all’epoca lo facevano solo una sparuta minoranza; mentre soddisfare il palato lo facevano  sia i ricchi che i poveri,  anche se i poveri in forma minore. 
Prima del 1860 i maccheroni erano conosciuti solo a Napoli, ma dopo l’impresa dei Mille, pasta e pomodori percorsero trionfalmente tutta la penisola, ricevendo una standing ovation dai cittadini di ogni regione, man mano che restavano affascinati da questo piatto di origine araba. Prima del 1600 la cucina italiana era così povera che i Lombardi erano chiamati “mangiarape” e i Napoletani “mangiafoglie” e solo dopo il 1600 la cucina napoletana compì la rivoluzione culinaria che portò a sostituire  carme e verdure con un bel piatto di maccheroni conditi con formaggio che permisero alla città di Masaniello di poter sopravvivere anche in periodi di crisi. 
Prima dell’unità d’Italia la nostra cucina subiva le influenze di quella straniera e soprattutto francese. Nel “gattopardo” il principe di Salina decide di far servire un pasticcio di maccheroni che pare abbia avuto molto successo.  Lo scrittore catanese Federico De Roberto racconta che i deputati italiani, subito dopo l’unificazione, mangiando vermicelli alle vongole, discutono sulla necessità di unificare le cucine italiane e concordano che i maccheroni, a buon diritto, simboleggiano un pranzo italiano per eccellenza. 
La pasta che prima si produceva solo manualmente, verso il 1880 assurse a livello industriale, grazie all’introduzione di nuovi macchinari.  Solo a Torre Annunziata esistevano 54 pastifici con diecimila operai addetti alla produzione. Anche altre regioni cominciarono a produrre pasta, come la ditta Agnesi di Genova,  che inventò l’imballaggio che permise l’esportazione di pasta italiana in tutti i paesi del mondo. Spaghetti, pasta e pizza sono sinonimo di italianità nel mondo e rafforzano l’identità nazionale, proprio come la moda di Valentino e di Armani che sono il vanto del made in italy all’estero. Intanto gli italiani di nord e sud continuano a litigare fra loro. 
Che dire: speriamo che là dove non riescono a metterci d’accordo le parole, potrà riuscirci un bel piatto di vermicelli fumanti.
Buona vita!
maestrocastello

Lasagne al forno

C'è solo l'imbarazzo della scelta.
pasta fatta in casa con pomodoro e basilico