giovedì 26 luglio 2012

Alzati e cammina!


Non mi capacito proprio del tempo che passa e non perché non riesca a capire che i tempi cambiano, le mode passano e l’uomo invecchia. Quando ero più giovane mi sentivo come immortale e pensavo sinceramente che vecchi ci sarebbero diventati solo gli altri e che a me non sarebbe mai toccato. Ora che ho perduto la mia bella chioma scura, i ciglioni neri sono divenuti “cacio e pepe” e che sono pieno d’acciacchi; penso sinceramente che anch’io sto, come tutti del resto, invecchiando. Nato nel millenovecentoquarantotto, sono stato ragazzino negli anni cinquanta, quando non c’era più la guerra; ma si faceva ancora la fame. Al mio paese, Sant’Agata di Puglia, appartenevamo quasi tutti a famiglie numerose. Hai voglia a dire che dove si mangia in tre, si mangia anche in quattro; noi eravamo già in sette e quando hai una fame  mangeresti anche i sassi!. In prima elementare eravamo in trentuno: ditemi, di grazia, come faceva quel povero maestro ad insegnare a tutti e trentuno? Ero così basso che il maestro, Peppino Danza, pace all’anima sua,  metteva un panchetto davanti alla lavagna e mi faceva montare, per farmi leggere quello che lui stesso ci aveva scritto. In seconda facevo la spola con mio fratello Gerardo per andare alla refezione scolastica. Noi, pur essendo famiglia numerosa, avevamo diritto ad un solo pasto gratis  al giorno per famiglia alla refezione e facevo la spola con mio fratello per entrare: un giorno entrava lui ed io aspettavo di fuori ed il successivo toccava a me. Chi entrava mangiava o il primo o il secondo, questo era l’accordo, l’altro pasto lo portava al fratello che aspettava fuori. Ricordo che allora avevamo tanta fame; ma anche tanta dignità. Ora mangio pochissimo la carne, ma allora si vedeva solo alla domenica: mamma faceva il ragù di carne, ci condiva la pasta fatta a mano e poi ci serviva la carne come secondo. Guardavo mio padre che aveva il pezzo più grosso ed allora lo invidiavo. Un inverno del millenovecentocinquantasei il mio paese rimase isolato per la troppa neve ed arrivarono gli elicotteri a portare vettovaglie e vestiario alla parte della popolazione più indigente. Ricordo solamente che il giorno dopo un mio compagnetto, di soprannome “Mangiacarne”,  sfoggiava orgoglioso un paio di galosce giallo-fiammante ed io lo guardavo con invidia. Pensai che ero indigente , ma non ancora abbastanza per avere anch’io un paio di galosce colorate. Poi arrivò la televisione in piazza XX Settembre e noi sembravamo gli indiani a cui gli uomini di Colombo mostravano gli specchietti. Il cinema, la televisione: prima si camminava; ora si corre; adesso si telefona o si vaga  nella rete. Mio padre che faceva il muratore, si alzava alle tre del mattino e percorreva a piedi decine di chilometri per portarsi sul luogo di lavoro e dopo otto-dieci ore di vero mazzo; un’altra decina di chilometri di altro mazzo per tornare a casa distrutto. Nella civiltà contadina era una regola percorrere molte ore al giorno insieme al mulo e alla zappa per raggiungere quel lenzuoletto di terra che spesso era un lenzuoletto di pietre. Quello che più mi spaventa è che prima eravamo tutti in continuo movimento, grandi e piccini; ora le strade sono piene solo di stranieri. Chi prende più un autobus? Solo gli stranieri! Sono tante le badanti che percorrono decine di chilometri ogni giorno per spostarsi dal letto dove dormono a quello dell’anziana che stanno accudendo. E noi che facciamo? Perdiamo tempo a telefonarci., siamo fermi davanti alla televisione, al computer o ad un semaforo, all’interno di un’automobile. La verità è che non cammina più nessuno, solo quelli che magari sono a rischio d’infarto; ma lo fanno lo stesso e noi che non ne siamo impediti non lo facciamo mai. Il teatro, la partita, le corse; meglio vederle alla televisione: patatine, birra e facciamo arrivare le pizze dal bar sotto casa  per gli amici e tutti davanti alla tele nuova:  un plasma da cinquanta pollicioni e non so se mi spiego! A volte ripenso all’infanzia, ripenso al paese e qualche amico mi dice che ora anche lì non si cammina, i giovani stazionano davanti al bar e si spostano al massimo per raggiungere la sala giochi o il pub; ma che cosa ci sta succedendo? Prima si camminava, ora si telefona; ma che cazzo ci dobbiamo dire di così importante? Forse è arrivato il tempo di alzarci dal divano di casa, di sfilarci le pantofole e rimetterci in cammino come un tempo. Dobbiamo convincerci che quella di facebook è solo un surrogato; la realtà è diversa. Non dobbiamo meravigliare nessuno, ma solo noi stessi e la meraviglia sta nella natura che aspetta di fuori; aspetta solo di essere percepita e non soltanto descritta dai ciarlatani della parola. Alziamoci ed andiamo e non restiamo fermi “come  stracci sotto il ferro da stiro”.
Buona vita!
maesrocastello

1 commento:

  1. colotti.giovanni@alice.it30 luglio 2012 alle ore 14:47

    PIACEVOLISSIMO COME SEMPRE LEGGERE I TUOI SCRITTI SOPRATTUTTO QUANDO RACCONTI ANEDDOTI DEL PASSATO CHE HO VISSUTO PRATICAMENTE ANCH'IO ! MI FAI RITORNARE INDIETRO CON LA MEMORIA E CON IL CUORE PIENO DI NOSTALGIA...NONOSTANTE TUTTO...!
    UN ABBRACCIO CON AFFETTO

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