mercoledì 21 marzo 2012

Le rotte della memoria.

Siede sulle scale di casa Filomena che ha un principio di alzaimer. Le altre donne della strada sferruzzano con le mani e ricamano con la bocca, mentre si raccontano i guai di ciascuna; lei  resta  muta, con lo sguardo perso nel nulla, forse a pettinare pensieri  di  una vita contadina. Il podere a mezzadria, una vita  a spezzarsi la schiena sulla terra di un altro, ad inchinarsi al padrone. Per lui ogni primizia, l’asparago selvatico, il fungo  cardoncello, le uova più grosse, sottratte alla bocca dei suoi figli per darle ad un vecchio, pure sdentato. Zia Filomena, come la chiamano tutti,  non è solo vecchia di anni, ma è rotta di fatica. Le montagne di panni lavati con la cenere bollita e sbattuti sulla pietra alla pila dietro l'orto, il pane fatto in casa ogni quindici giorni, la moglie che mangia in piedi come il cavallo, il pollo da spennare alla domenica, il coniglio scuoiato e messo a bagno in acqua e aceto, il maiale a gennaio, appeso per i piedi e lasciato a strillare, mentre tutti assistono alla sentenza mortale: il bambino a tenerlo per la coda, il sangue a colare nella ciotola, l’acqua calda per levare meglio il pelo. Le alzate prima dell’alba, gli uomini che pranzano alle quattro del mattino, prima di avviarsi ad arare fino a sera, la colazione col pane di due giorni: pane e frittata con i peperoni dell’orto. Una vita vissuta gomito a gomito con le bestie nell'aia e poi doverle sopprimere una alla volta: l’agnello a testa in giù, il maiale sdraiato sopra una tavola, una botta in testa al coniglio; comunque, sempre una festa intorno alla morte di una bestia.  Aspettare il ritorno del gregge gravido di latte e prepararsi a trasformarlo nei suoi derivati, abbeverare le bestie, ispezionare il pollaio, attingere acqua dal pozzo, pestare la merda di vacca, arrivare alla sera sul letto sfinita e le voglie del marito a farle intendere che per lei non è ancora finita. Povera zia Filomena!  Con la pancia grossa ben undici volte nella vita, una ogni 30 mesi all’incirca: sette figli viventi e quattro che non hanno mai visto la luce. Forse ricorda le rare passeggiate in paese, con gli uomini dietro e le donne davanti, come ai funerali, quelli accompagnati dalla banda; il calzolaio alla tromba, il sarto al clarino, il barbiere al tamburo; le serrande abbassate quando passa la bara. Le giornate in campagna che sanno di amaro, l’aria cupa degli uomini che tornano dalla terra, che siedono silenziosi intorno al camino, mai un sorriso per nessuno, mai una parola per le mogli, non una carezza per i figli. Una vita a sputare sangue sulla terra di altri, terra generosa  col padrone e troppo avara con la famiglia del mezzadro. Sembra triste zia Filomena e quando una donna la scuote, ha come un sussulto; ma poi si rituffa nel torpore di sempre. Dal collo le pende un ciondolo con l'immagine di Angelo, suo marito mezzadro, che si vede chiaramente quando lei resta immobile e, non appena si muove, fa continue giravolte e scompare in mezzo al seno cadente. L’incidente col trattore, la corsa agli Ospedali Riuniti di Foggia, il suo Angelo nella bara col vestito buono, le notti a piangere al buio, i figli tutti  partiti al nord che la terra non piace più a nessuno. Lei malata di alzaimer e di solitudine e dei tempi passati le restano solo foto sbiadite in bella mostra sul comò di casa al paese. Zia Filomena vive quasi esclusivamente  per strada, per non restare da sola in una casa ormai troppo grande per lei sola e non abbastanza per contenere la vastità del suo dolore. Filomena aspetta, come tante, la fine; aspetta il momento che il suo Angelo la venga a prendere, per condurla in una mezzadria da qualche parte del cielo, dove non è fatica lavorare la terra e  la vita non viene uccisa a piccole dosi, sia che riguardi le persone che si tratti degli animali dell'aia..
Buona vita!
maestrocastello

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