lunedì 18 maggio 2009

Entrare in una fotografia.



Vi capita mai di assistere ad un film che ha inizio da una foto di gruppo e che improvvisamente si anima e dà il via ad una storia appassionata? E’ bello scendere in una fotografia, trasporre i tuoi occhi di adesso su quelli di un tempo e ritrovare nel tuo antico sorriso le speranze e i tuoi sogni bambini. Riguardare vecchie istantanee è sempre occasione di sane risate, è un rivedersi col “senno di poi”; è come fare un salto nella soffitta dei ricordi e un ritrovarsi fra oggetti dismessi di cui non avevi memoria. Certe fotografie testimoniano un’appartenenza, sono un filo diretto col nostro passato, uno spezzone di vita che non si è arreso allo scempio che il tempo avrebbe poi fatto di noi. Un giorno mia moglie Giovanna pensò bene di incorniciare un minestrone di foto che raffigurano le nostre due infanzie e spesso mi sorprendo a fissare quel quadro appeso in cucina che mi evoca la nostra miseria di un tempo. Vi appare Giovanna bambina col fratello che indossa un cappotto ricavato da una coperta di lana, ritrovo me stesso in abito bianco da prima comunione che mamma aveva ricavato dalla divisa di vigile urbano dimessa da un mio zio paterno; vedo pure le scarpette di vernice bianca da bambina, indossate dal mio fratellino Gerardo: appartenevano alla cuginetta Pina e prestate per il tempo necessario allo scatto. Ma chi se ne infischiava se erano da femmina! In tempi in cui bambini camminavano abitualmente scalzi, se avevi un paio di scarpe buone, erano destinate solo per la scuola e per recarti in chiesa. Le calzature dei bimbi di allora erano abitualmente di teletta bianca o blu: quanto bianchetto ho passato su una tela che era ormai stufa delle mie spennellate e si incotechiva! Le scarpette di tela erano quelle più a buon mercato, ma trovava posto anche il classico sandalo di cuoio da frate francescano. Quando mio padre mi accompagnava all’acquisto eccezionale di un paio di scarpe, la parola d’ordine della mamma era sempre:” due numeri in più, mi raccomando, che il piede poi cresce!” ed io ero poi costretto a combattere con scarpe sempre troppo grandi per un piede bambino, reso appena compatibile da calzettoni di lana anche fuori stagione invernale.
Ad anni alterni ci toccava anche un paio di scarponi fatti a mano dal calzolaio del paese.” Fatte su misura” era solo un modo di dire : c’era sempre la costante dei due numeri in più. Il cuoio si sa non perdona, perché lascia vere e proprie stimmate sui talloni di un piede bambino. Ricordo ancora il rituale: ti prendevano l’impronta, come fa la scientifica dopo un incidente stradale, facevi una prova unica ad opera ormai ultimata e ti presentavi alla consegna con un paio di calzettoni di lana per indossare sul posto le tanto sospirate scarpe nuove che, come atto finale, avevano tempestate di chiodi dalla testa appiattita che venivano chiamate “centrelle”; venivano applicate dietro raccomandazione del genitore, per farle durare più a lungo; ma ero ignaro che il tragitto fino a casa sarebbe stata un’autentica via crucis, per quante volte sarei scivolato sul selciato lucido delle stradine del mio paese. Le scarpe, a casa mia, non avevano mai diritto al pensionamento: quando un piede aveva fasi accelerate di crescita, c’era una lista d’attesa fra i miei cinque fratelli per impossessarsene e così nulla andava sprecato. L’alternativa era che mamma ci tagliava uno spicchio proprio in punta, creando un varco alle dita e lasciava il piede fresco d’estate. Nessuno rideva di questo, perché era un vezzo di tutti. Vedete come solo osservando i calzari di una foto abbiamo quasi raccontato un periodo di tempo e le sue condizioni di vita, per non parlare del resto; ma quella è una storia diversa.
cordialmente maestrocastello.

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