giovedì 5 marzo 2009

Che maestro sono stato?..............parte seconda.

L’ora della colazione.
Le cinque classi delle elementari non le ho frequentate tutte in un edificio regolare, come avviene normalmente. Mi è capitato anche di frequentare un paio di classi in case private che il Comune del mio paese prendeva in affitto, per ovviare alla carenza delle aule. In "seconda" avevamo per scuola una casetta con due stanze, situate su due piani e collegate da una ripida scala di legno, tutta tarlata, che noi chiamavamo “scalone”. Quei locali avevano come impianto di riscaldamento una misera stufa a legna, solo al piano superiore, che riscaldava poco e male. Non essendoci molto spazio, non esisteva una cattedra per il maestro che stazionava perennemente col culo appiccicato alla stufetta; mentre noi eravamo nel locale sottostante. Chi provvedeva al buon funzionamento della stufa? Noi, naturalmente! Tre-quattro alunni, a turno, avevamo l’incarico di arrivare mezz’ora prima che cominciassero le lezioni, provvisti di qualche ciocco di legna che portavamo da casa e provvedevamo all’accensione della stufa che doveva essere pronta per l’arrivo del signor maestro. Al suo arrivo, il maestro si toglieva i guanti di lana grigia, ispezionava l’intensità della fiamma, si fregava le mani ed estraeva dalla sua cartella marrone un immancabile involucro di carta oleata che depositava sulla stufa; quindi ci spediva tutti nel locale sottostante. Uno di noi aveva l’incarico di capoclasse. Eri scelto quasi mai per meriti scolastici, ma per tutt’altro: perché eri un conoscente del maestro, figlio di genitore "in vista" del paese o perché avevi la possibilità di portargli dei regali. Il maestro passava la mattinata a sfogliar delle riviste e scendeva nell’aula inferiore solo per dettare il compito che noi eseguivamo sotto la stretta sorveglianza del capoclasse-spia. I banchi avevano un foro rotondo sul pianale per accogliere un calamaio di vetro o di plastica che il bidello provvedeva a riempire periodicamente di inchiostro nero. Era sempre un teatrino quando tiravamo fuori le penne e provavamo, sulla carta assorbente, i pennini che si spuntavano facilmente. Alcuni avevano un osso di seppia e vi sfregavano contro il pennino che ritornava come nuovo. Tanti di noi avevano geloni nelle mani e facevano fatica ad usar subito la penna ed anche chi non li aveva, ne era impedito dal troppo freddo. Il guaio dei pennini era che facilmente macchiavano i quaderni, con notevole disappunto del maestro e per lui, anche se perfetto, un compito macchiato era come una fedina penale sporca! Quando eravamo finalmente intenti a compitare, dal piano superiore, prima sottile e poi sempre più pressante, arrivava un profumo di pane caldo con ripieno di salsiccia che il maestro stava facendo rosolare bene al calore della stufa. In quei momenti puoi misurare tutta la resistenza di un uomo! Ed io che ero poco più che un bimbo, spesso ho rischiato di svenire. E non parlo per il freddo, ma proprio per la fame! Puntualmente alzavo gli occhi allo scalone e pensavo deciso: “da grande farò il maestro elementare!”. E quando riteneva caldo al punto giusto il desinare, l’emerito insegnante, da sopra sentenziava : “ E’ ora della colazione!”. Era una vera provocazione per gente come noi che si puzzava dalla fame. Chi ce l’aveva, cavava dalla cartella un frutto, un pezzo di pane battezzato con l'olio o qualche noce ed il gioco era fatto! Tanti, invece, attaccavano subito a giocare per non pensare ed esorcizzavano così la fame che si aggirava maligna tra i nostri banchi.

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