giovedì 26 marzo 2009

Cinema Italia.




Il cinema è il più bel regalo che potevano farmi da fanciullo, in anni in cui avevo poche occasioni di trasporto nel mondo della finzione, oltre al gioco ovviamente. Il buio della sala cinematografica come cabina di comando per brevi viaggi in storie illuminate funzionava a meraviglia. Al mio paese esisteva una sola sala cinematografica, denominata appunto Cinema Italia. Quanto tempo ho dedicato a fissare i personaggi dei cartelloni che venivano affissi in piazza per invogliare le mie fantasticherie, pur sapendo che poi non avrei assistito a quelle proiezioni. In tempi in cui mancava perfino il pane, andare al cinema era un lusso per pochi. A volte restavamo all’esterno della sala, accontentandoci di ascoltare solamente il sonoro delle proiezioni; il resto lo faceva la nostra immaginazione. Amavo il cinema al punto di commettere il primo furto della mia vita. Sottrassi in casa le cinquanta lire e andai a vedere “Il conte di Montecristo”. Poteva anche andare meglio la mia prima volta, infatti i sensi di colpa trasformarono quello che doveva essere un divertente pomeriggio in due ore di rimorsi. Mi sarei rifatto di lì a qualche tempo. Nei primi anni del ’60 frequentavo “i pidocchietti”, sale di quart’ordine della periferia romana: erano a basso costo e potevi trattenerti a tuo piacimento. Ricordo che staccavano il biglietto nelle primissime ore del pomeriggio ed uscivamo per la cena, dopo ripetute visioni dello stesso film e con gli occhi gonfi ed annebbiati da fumo passivo. Il cinema neorealistico ha raccontato bene una nazione in ripresa, con attori presi dalla strada, la presa diretta del paesaggio esterno di città e campagne, storie di povera gente costretta a rubare una bicicletta per trovare lavoro. La macchina da presa dei giovani registi documentavano tutto ciò che il fascismo non ammetteva: la miseria, il duro lavoro, il suicidio, la prostituzione; insomma, la documentazione fedele della realtà. Oggi provo fastidio all’ascolto dei diversi notiziari, allora gustavo anche il cinegiornale della settimana Incom che anticipava la visione della pellicola cinematografica. Ho memoria dei primi colossal in Cinema Scope che duravano ore e per me era sempre troppo poco: “I Gladiatori”, “La Tunica”, “Ben Hur”, “Quo Vadis”. Lo schermo cinematografico era la mia macchina del tempo, in grado di regalare sortite in epoche remote; il timone della mia ingenua fantasia. Poi è venuto il cinema di costume, la commedia all’italiana che ha scoperto vizi privati e comuni virtù. Il grande schermo ha registrato sia i progressi economici di un popolo formica che la capacità di mettersi in burletta. Totò e Peppino, Sordi e Manfredi, Tognazzi e Vianello, Gassman e la Vitti sono state le facce diverse degli italiani che non avevano più voglia di guardare al passato; ma anche di sorridere ciascuno dei difetti dell’altro e costruire insieme una coscienza collettiva. Il cinema non ha cambiato il mondo ma è stato lo specchio fedele dei nostri cambiamenti, ha educato con le cose dette ed anche con quelle lasciate alla nostra immaginazione : un fotogramma, una musica o magari uno slogan azzeccato hanno inciso più di un discorso completo. Poi è venuto il cinema impegnato, quello dai contenuti di spessore. Per darci un tono frequentavamo sale di sperimentazione che i più colti chiamano"d'essai." Francamente preferisco il cinema che racconta storie semplici a gente semplice, gente che entra in sala, lasciando i crucci personali al guardaroba; vogliosa solo di due orette di spensieratezza.

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