mercoledì 22 aprile 2009

Nonna Mariannina.



Dei quattro nonni che di solito spettano a ciascuno me ne son toccati due solamente, i genitori di mia madre. Nonno Giovanni, di cui porto il nome, l’ho conosciuto solo a dodici anni, quando una nave lo riportò indietro dall’Australia dopo un’assenza di 37 anni, in compagnia di un’infinità di bagagli. Un valigione intero era stipato di tabacco delle migliori marche e divenne il bottino di noi nipoti, da poco dediti all’uso della nicotina. Nonna Mariannina è stata proprio una seconda mamma, non a caso dalle mie parti la nonna viene chiamata “mamma-nonna”. Questa donnetta nata nel 1898 era persona eccezionale, la ricordo sempre vestita a lutto, come se indossasse una veste monacale. Proprio come una religiosa, spesso s’imponeva la regola del digiuno e raramente la vedevi mangiar carne al venerdì, pure che non era giorno di precetto. Lei era come un faro per le famiglie assai prolifiche delle sue due figlie: Angela e Letizia. Era il “refugium peccatorum” degli undici nipoti, una specie di madre superiora. Quando volevi sfuggire ad una sicura punizione, correvi da nonna Mariannina che si frapponeva volentieri fra te e il tuo carnefice domestico, cioè tua madre che di punirti avrebbe avuto tutte le ragioni. Con noi era sempre affabile e difficilmente lasciava trasparire un cruccio o un risentimento. Praticamente faceva da completamento alla figura della prima mamma. Mia madre, per esempio, era restia a raccontarci fiabe: o che non aveva tempo o che arrivava a sera a corto di energie; quindi interveniva nonna Mariannina. Davanti al fuoco del camino ci raccontava favole che lei chiamava “Li cunte” (i racconti). Quello ricorrente era una variazione paesana della favola di Pollicino e parlava di un Orco che aveva sposato una vedova che aveva sette figlie piccoline, ma presto dimostrò la sua cattiveria ed un giorno si partì col carico delle piccole sulle spalle per “papparsele” nel bosco. L’orco era ignaro che sua moglie aveva sostituito il carico umano con dei vasi di terracotta pieni di acqua calda. Durante il tragitto i vasi inclinati perdevano e l’Orco credendo che le bimbe se la stessero facendo sotto per la paura, ripeteva una filastrocca la cui traduzione suona più o meno: “Come pisciano abbondanti queste fanciulle, al bosco facciamo i conti!”. Certo nel dialetto rende meglio, perché suona come un ritornello. Una volta giunto al bosco, l’Orco scoprì d’essere stato raggirato. Quel ritornello seguitava anche quando, uno dopo l’altro, nonna ci metteva a letto e, finchè non ci vedeva addormentati, ripeteva : “Cumme pisciene belle ste figliole….”. Mia nonna aspettò per ben 37 anni il suo Ulisse e ogni volta che il postino le recapitava una busta dal bordo colorato era festa in tutta la stradina del paese. Aveva scritto il nonno dall'Australia. Faticava a nascondere un’immancabile lacrima furtiva e poi si passava alla lettura, secondo una precisa gerarchia: prima nonna, seguivano le figlie e quindi toccava a quei nipoti già in grado di cimentarsi col sillabare. Alle comari, rimaste tutto il tempo sulle spine, veniva fatto solo un resoconto orale. La missiva veniva finalmente riposta religiosamente in una cassetta portamunizioni di metallo scuro, proprio come in un tabernacolo, insieme al resto della nutrita collezione che la nonna ogni tanto ci leggeva di ripasso. Penelope nell’attesa ventennale di Ulisse faceva e disfaceva una tela per ingannare il tempo; nonna Mariannina in un tempo, esattamente il doppio, faceva mille mestieri anche umili, per crescere le due figlie prima e gli undici nipoti successivamente. Ella aveva attenzione e riguardo per tutte le persone e l’espressione sua abituale era: “poveretto”. Noi la prendevamo in giro perchè la utilizzava indifferentemente anche per un re o per il papa. L’immagine che proprio non ho potuto mai scordare era quando passava il carretto dei gelati. Col tempo bello la vita del paese si svolgeva anche per la strada: le donne a cucire sulle scale e noi bambini a fare mille giochi. Inaspettatamente avvertivamo il trillo di un fischietto inconfondibile che annunciava l’arrivo del carretto dei gelati: di botto si smetteva di giocare e si era presi come da fibrillazione; ognuno correva dal parente adulto che implorava, aiutandosi col pianto. Noi partivamo alla volta della nonna che cominciava la difficile ricerca delle monetine in una tasca del grembiale, in cui c’era di tutto e cavava fuori, tra bottoni e pezzi di fettuccia, tante cinque lire per quanti erano i nipoti supplicanti.
Ad agosto del ’60 il suo Ulisse ritornò al paese e vissero sereni alcuni lustri, poi fu vedova veramente; ma ormai era già stata abituata. Gli anni finali li ha vissuti senza l’uso del parlare e si agitava se non la comprendevi. Dolce nonnina, mi piace ricordarti seduta davanti casa tua che mi facevi mille confidenze e pure quella volta che nella calza della Befana mi riservasti carbone al posto delle caramelle, dovevo averla fatta grossa; ma solo successivamente ho capito che anche quello era un tuo modo per dirmi quanto mi volevi bene.

5 commenti:

  1. papà mi hai fatto piangere però!!!

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  2. STUPENDO!!!! ....GRAZIE!
    CON AFFETTO GIOVANNI (...piccolo...)

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  3. Anche a me è sceso un velo di tristezza, i miei ricordi di nonna mariannina si fanno sempre + radi e l'immagine diventa come quei filmati girati in muto col "super 8mm" dai colori scuri e molto sfuocati...
    non posso dire di averla veramente conosciuta ma spero di averle donato un sorriso con la mia presenza nei suoi ultimi anni. Leonardo Colotti

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  4. Nonna Mariannina è stato un faro luminoso
    che ha permesso a tutti noi di approdare
    sicuri al nostro porto di partenza e il
    suo ricordo ci guiderà per molto tempo
    ancora. Buona vita!

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  5. Nonna Mariannina non ci lasciava mai tornare a Roma senza aver fatto taralli e ciambelline all'uovo.
    Ricordo i suoi capelli lunghissimi e candidi che io, Linda e Anna le scioglievamo per rifarle la "crocchia". Era dolcissima con il suo nasino all'insù (che purtroppo io non ho ereditato!)

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