venerdì 2 aprile 2010

L'anno del pensiero magico. (ovvero, il modo per esorcizzare il dolore del lutto).


Si chiama lutto il processo di adattamento alla perdita di una persona cara. Il problema di ogni generazione è stato quello di metabolizzare la morte di un congiunto, d’ un amico o di un grande uomo e si è sempre pensato che sarebbe poi stato impossibile vivere senza. Nelle religioni tradizionali vi è sempre un paradiso, oppure la reincarnazione, dopo la morte. E’ un ottimo metodo per preparare gli uomini a morire. Ma c’è anche chi, nonostante pensi alla morte con la speranza di una vita futura; vive nell'incessante paura di quell'istante in cui entrerà nel suo cerchio. Dice un maestro Zen : “Svegliarsi non significa soltanto aprire gli occhi: anche morire è svegliarsi. La vita e la morte sono identiche. Se accettate la morte « qui e ora », la vita diverrà più profonda”. Nei miei ricordi di bambino degli anni cinquanta era ricorrente una filastrocca di San Filippo Neri, "vanità delle vanità, tutto il mondo è vanità, alla morte che sarà ogni cosa è vanità…"; era un po’ come il tormentone del Medioevo: ” Ricordati che devi morire! ” e l’idea della “morte eterna” mi ha sempre fatto sudare freddo, soprattutto la parola eterna che significa “per sempre”. La Chiesa aveva la necessità di incuterci un “salutare timore” per la sorte dell’uomo e la religione era vista come una specie di forma assicurativa sugli infortuni dell’aldilà. Oggi si parla sempre meno di questo argomento e si tende ad allontanarne sempre più il pensiero della morte, come se la cosa non dovesse mai riguardarci, o, se proprio deve accadere, che accada il più tardi possibile. Poi succede che “La vita cambia in un istante. Un normale istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”, proprio come è capitato alla scrittrice e giornalista Joan Didion, autrice di “L’anno del pensiero magico”. John Gregory Dunne, sposato da quarant’anni con Joan Didion, muore all’improvviso la sera del 30 dicembre 2003. Ed è così che per Joan inizia l’anno del pensiero magico. “Un anno in cui tutto viene rimesso in discussione, riconsiderato, riformulato. Le idee sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore, sui modi in cui la gente affronta o non affronta il fatto che la vita finisce, sulla fragilità dell’equilibrio mentale, sulla vita stessa”(Il Passatore). Questa è la stessa cosa che succede a tante nostre donne che, pur avendo messo in conto un tale evento, non pensavano che arrivasse davvero un tale momento anche per loro e quando, improvvisamente arriva è uno stravolgimento. Hanno inizio così le varie fasi del dolore che vanno dalla negazione della realtà, alla rabbia, alle auto recriminazioni, alla profonda depressione e, finalmente, all’accettazione. La donna si aggira per la casa ed è sicura di vedere la persona amata e la vede, a tratti, con l’immaginazione; Non può essere che il marito non ci sia più! Sente il suo odore nei vestiti appesi; “ma sì, è tutto uno scherzo!”. Quando gli effetti della negazione della realtà svaniscono e riappare il dolore, è presa da un senso di rabbia : “doveva succedere proprio a me?” e, ancora, di autorecriminazione: “se ci fossimo rivolti al medico prima, se avessimo consultato altri specialisti, se… se…se..”. La verità è che non si è ancora pronti ad accettare tutto quel dolore e si passa nella fase depressiva: la donna è continuamente triste, piange, si dispera, fatica a concentrarsi. Ha la sensazione che il defunto sia in qualche modo ancora presente e, perciò, farà fatica a regalare vestiti e scarpe del marito. “ E se dovesse tornare, cosa indosserebbe? Non potrebbe mica camminare scalzo!”. Si innesca quel “pensiero magico” di Joan Didion che” induce a credere di poter modificare ciò che è già accaduto, di poter tornare indietro, perché lui possa tornare indietro. Fino a che, “dopo un anno e un giorno, Joan si rende conto, quasi suo malgrado, che qualcosa sta cambiando. Che guardando al tempo trascorso incontra ricordi in cui John non è più presente. Che è necessario, e giusto, lasciare andare i morti. Per poter sopravvivere. Per poter continuare a vivere”. (il Saggiatore). La rassegnazione è il segno evidente che è avvenuto quel normale processo di adattamento alla perdita che ci permetterà di vivere nella consapevolezza che la morte, per quanto dura da accettare, è il naturale epilogo della nostra recita su questo palcoscenico, chiamato vita.
Buona vita!
Maestrocastello.

5 commenti:

  1. a volte, sono proprio le esperienze più dolorose che ci obbligano a tirare fuori il meglio di noi

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  2. Riuscire a convivere con il dolore e a superare la sofferenza di un lutto così grave come quello della perdita del coniuge, richiede tempo, energia e il desiderio di stare meglio

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  3. Perdere il compagno della tua vita deve essere terribile; è come se crollasse all'improvviso il castello che avete costruito insieme da tutta una vita, fatto di progetti poi realizzati, sogni, promesse, speranze, passioni, dolori e tante picccole quotidianità che vi hanno aiutato a crescere in due. Resta il fatto che la vita, poi, continua e "lo spettacolo deve continuare!

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  4. Ho più volte pensato alla morte, soprattutto quando sono scomparsi mio padre e mia nonna. Probabilmente sono quelli gli attimi in cui riusciamo a percepire quasi materialmente la morte. Ricordo ancora quando toccai con le labbra la fronte di mia nonna, era la prima volta che avevo a che fare con un cadavere, non era fredda perchè il sangue non circolava più, quel corpo era privo di vita, di un'anima se la vogliamo chiamare così. Li ho capito tutto. Sparisce in noi qualcosa. È una sensazione inspiegabile, tremenda: si ha veramente la cognizione che quella persona non è più in questo mondo. Qualche anno fa uscì un film, si chiamava 21 grammi, Il titolo si riferiva all'ipotetico peso (appunto di 21 grammi) che si perderebbe esalando l'ultimo respiro. Non so se dopo ci sia qualcosa ma sicuramente ora, qui, mio padre e mia nonna non ci sono più. Ma il nostro cervello ci aiuta a dimenticare e come dice la psicoanalisi, i ricordi non hanno una locazione ben precisa nel cervello e non vengono mai cancellati, sono presenti, ma non si riesce, detto in modo molo semplice, a metterli più a fuoco e così piano piano il volto dei nostri cari sfuma e con lui anche il dolore.
    La vita una volta continuava con la terra, i corpi erano seppelliti sotto un prato verde e i nostri cari rivivevano nel polline di un fiore, nella rosa che un giorno sarebbe sbocciata, nell'erba che un gregge avrebbe brucato. C'erano anche molte altre procedure di rendere omaggio al defunto: la mummificazione che rendeva il corpo immortale, il rogo che portava il fumo dei corpi bruciati nel cielo vicino a un Dio o addirittura per ottenere lo stesso risultato alcune popolazioni lasciavano i corpi in preda a falchi e alle aquile. Ora, invece, ci chiudono dentro il cemento per cancellare definitivamente la memoria e l'unica cosa che ci tiene legati a chi non c'è più è una foto ingiallita con un nome. Quanta poca importanza si da alle cose, alle persone, alla vita e alla morte.
    Una sera, durante una trasmissione televisiva ho sentito un uomo di religione ebraica dire: "chi siamo noi per dire che Dio non esiste, siamo troppo piccoli per affermare questo."
    Non so se dopo ci sia qualcosa ma infondo la meta finale di ogni vita è la morte. Non possiamo certo dire il contrario. E' il punto di arrivo. Nasciamo avendo già letto il finale. E visto, quindi, che la trama è un pò troppo scontata cerchiamo di rendere il libro un più vario e Godiamoci la vita se ne siamo ancora capaci.
    E' difficile in quest'epoca riuscire a godere di ogni attimo, soprattutto perchè molti attimi della nostra vita li passiamo nel traffico, davanti a un computer, ammucchiati in un autobus o dentro un centro commerciale. E' forse la decadenza di un era ma troppi esempi abbiamo già avuto in passato di uomini che dicevano la stessa cosa. Sarà forse impossibile godere della vita nella sua vera essenza? Non lo so, ma probabilmente bisogna provarci.

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  5. L'uomo, essere dotato di ragione, tende per una sua intima esigenza a volersi spiegare ogni fenomeno, in quanto la conoscenza produce sicurezza; la non conoscenza invece genera disagio, apprensione e lascia aperto il campo alle supposizioni, ai timori che possono condizionare la vita, a volte, anche in modo pesante. Della morte non abbiamo nessuna conoscenza o esperienza diretta, se non sotto l’aspetto biologico che vediamo sugli altri; perché come diceva Epicuro, “quando siamo noi non c’è la morte; quando c’è la morte, non siamo più noi”. Della morte nessuno può dire qualcosa di vero o di falso, perché noi abbiamo solo la conoscenza del morire e non della morte in sé. La domanda che si sono posta in tanti è se la morte è dentro o fuori la vita, per le sue ripercussioni sull’esistenza: infatti, si tenta di capire se il valore della vita è condizionato dalla morte o se è la morte che acquista valore tramite la vita. “la morte può avere senso attraverso la vita concepita come realizzazione di valori”; a dimostrazione di questo gli studiosi indicano la morte di Socrate e quella di altri uomini illustri che non la temevano affatto. Ma queste sono solo alcune delle tante congetture e se ne possono fare tante altre, tutte relativamente valide.

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